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Laterza ha trovato una nuova nicchia di mercato: libriccini molto brevi, non esattamente economici (sì, dieci euro non sono una gran spesa, ma per il numero di pagine sono davvero tanti) e legati ad avvenimenti vari. Nella collana "I libri del Festival della Mente" è così uscito questo libretto che è più che altro la trascrizione di una lunga chiacchierata tra l'attore e regista e il critico teatrale. Ci sono degli spunti interessanti, come quando Servillo racconta di come vede il teatro come orizzontale: non solo ci sono interazioni dirette tra regista e compagnia, ma anche il pubblico fa parte di questo gioco, e col passare delle repliche l'interpretazione può cambiare di volta in volta proprio perché - essendo il pubblico diverso - l'opera è diversa. Tutto questo ovviamente non si può fare nel cinema, dove il regista è l'unico che può assemblare i vari pezzi. L'impressione finale del libro resta comunque quella di una certa "leggerezza", o meglio impalpabilità: non fa male, però non lascia poi molto.
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Mentre continuano in Italia e all'estero i riconoscimenti per le interpretazioni del Divo e di Gomorra e proseguono le trionfali repliche della Villeggiatura di Goldoni,esce un libro intervista di Toni Servillo, in cui quest'ultimo risponde alle domande di Gianfranco Capitta ripercorrendo la sue esperienze di attore e di regista di prosa, opera lirica e cinema. Servillo, com'è noto, sta attraversando un momento magico nella sua carriera e un libro del genere avrebbe potuto essere un abile strumento per consacrare la sua immagine di protagonista del mondo dello spettacolo, pronto ad assumere le fattezze del divo facile agli autografi, prezioso ospite di riguardo dei programmi televisivi.
Invece, con Capitta, Servillo ha costruito un libro addirittura ascetico: niente foto, niente biografia, niente aneddoti e ricordi accattivanti, ma centotrenta pagine in brossura di piccolo formato che raccolgono una rete di riflessioni attente, legate a una lunga esperienza di lavoro sulle scene, puntigliosamente avvertita come una forma di artigianato, di fatica quotidiana, di studio, e refrattaria alle lusinghe della creazione magica, del colpo di genio, dell'ispirazione improvvisa. Quello che alla fine il lettore si trova tra le mani è una vera e propria poetica del lavoro teatrale, chiara, semplice, concreta, e capace di rovesciare buona parte dei luoghi comuni che oggi regolano il dibattito diffuso sull'arte del teatro.
Perno di quest'arte è, nella visione di Servillo, una sorta di attore artigiano capace di entrare in sintonia con un testo drammatico d'autore che costituisce il nucleo propulsivo della creazione scenica e deve perciò essere trattato con attento rispetto. Di qui la diffidenza verso due figure canoniche della mondo del teatro. Una, tradizionale, quella dell'attore mattatore, protagonista unico, tutto "genio e sregolatezza": una figura che "fa sorridere". Così Servillo, pagato un rispettoso omaggio alla personalità di Carmelo Bene, non ha alcuna perplessità nel dichiarare che un tal genere di genialità è probabilmente adatta ad ambiti artistici diversi dal teatro. E poi c'è la seconda figura, del "regista critico", forse più pericolosa perché più attuale e oggi assolutamente dominante nel mondo della scena e nell'immaginario del pubblico. Servillo, pur evitando di indicare celebri nomi, non mostra in proposito alcuna pietà. È la regia, spiega, organizzata intorno a un'idea interpretativa forte, preliminare e predeterminata, che guida tutto il lavoro di allestimento, individua gli effetti più efficaci e si impone al pubblico, a cui il regista consegna, inalterabile e garantito dalla propria "griffa", un messaggio definitivo, di indistruttibile pesantezza. Tanto imponente e perentorio che il regista lo abbandona al termine delle prove, in genere dopo la prima: la compagnia continua da sé con le repliche e il regista si occupa di qualcos'altro.
Per Servillo, invece, produrre uno spettacolo richiede tutt'altra strategia, fondata su un delicato lavoro interno al testo che, tanto per cominciare, non deve essere affatto "scelto" dal regista o dalla compagnia, e ancora meno dalla direzione di un teatro o da un produttore. Il testo deve piuttosto essere "avvicinato", muovendo dall'interesse per un autore, per i temi che tratta, per le forme della sua drammaturgia; Molière, per esempio, oppure Marivaux, Eduardo, Viviani: e di qui si arriva poi a individuare una delle loro opere come terreno di scavo, attraverso un processo "di lenti aggiustamenti", di "piccoli tentativi artigianali". Nello stesso modo vengono trovati gli attori: non si cerca l'interprete adatto a un personaggio, ma un gruppo omogeneo di persone che appaiano quanto più possibile in sintonia con l'autore, i suoi temi, la sua sensibilità. Solo alla fine si decide la parte da affidare a ciascuno.
Nel corso di tutta questa procedura il compito del regista e quello dell'attore finiscono con il confluire. Non perché il regista, assumendo le iniziative che gli competono, compiendo le sue scelte e curando la coordinazione complessiva, non debba ovviamente tener conto delle proposte e della sensibilità degli attori. Ma perché è solo nella concreta esecuzione del testo che regista e attori possono comunicare realmente tra loro e con l'opera. Il regista, insomma, dirige efficacemente gli attori soltanto mentre recitainsieme a loro. Non può, in altri termini, comportarsi come un direttore d'orchestra che dirige sul podio, separato dagli orchestrali, scorrendo la musica e agitando la bacchetta. È piuttosto, spiega Servillo, un "primo violino" che suona con i suoi compagni e, dunque, nel caso del teatro, un attore che deve lavorare con tutti gli altri, e poi presentarsi interpretando anche lui, con loro, un personaggio di fronte al pubblico.
L'analogia con il concerto musicale diventa così la chiave per comprendere il lavoro della compagnia sul testo dell'opera. Alla prima lettura il testo si presenta agli attori come "una partitura" da eseguire senza alcun approfondimento critico, traendone un immediato piacere. Seguono poi le prove, che sono un esercizio costante di "sapienza teatrale". Bagaglio tecnico, sensibilità, cultura, si proiettano sulle sensazioni nate dall'esecuzione iniziale, le elaborano, le amplificano, sollecitano "la capacità di risonanza dell'opera" e la traducono in una rete di suggerimenti che si ampliano in cerchi di comunicazione sempre più vasti e penetranti, fino al coinvolgimento, nello stesso gioco, del pubblico, sera dopo sera.
È un processo che, almeno idealmente, potrebbe durare all'infinito, e proprio per questo, nell'ottica di Servillo, le repliche, comunemente avvertite come una stanca ripetizione che minaccia la freschezza espressiva dell'attore, si trasformano nel momento essenziale dell'intera creazione teatrale. Innanzi tutto, la loro prolungata ripetitività nutre il rapporto intimo, quotidiano che l'attore coltiva con il proprio personaggio. E poi è nelle repliche, nella continua verifica delle ipotesi e delle soluzioni tentate nell'esecuzione del testo, che è possibile giungere a effettive scoperte. Su questo Servillo è lapidario: solo "le quattrocento repliche di Sabato, domenica e lunedì", dichiara, l'opera di Eduardo portata in tournée per cinque anni, dal 2002 al 2006, "ci hanno restituito una visione del testo e un approfondimento del teatro inimmaginabile all'inizio del nostro viaggio".
Attraverso le tre immagini chiave dell'artista come artigiano detentore di una sapienza fatta di sensibilità e di fatica, del regista come primo violino che suona davanti al pubblico insieme ai suoi compagni e del lavoro sul testo come esecuzione musicale di una partitura, Servillo delinea un'idea di teatro intorno a cui si depositano riflessioni e giudizi sulle condizioni attuali della nostra vita culturale, dall'importanza del recupero della leggerezza, della semplicità, del "nitore" degli autori settecenteschi, alla forma particolare di erotismo che è propria dell'esperienza teatrale, alle considerazione più tecniche sulla regia dell'opera lirica, o sul lavoro nel cinema, fino alla spiegazione dei procedimenti che appaiono necessari per rendere efficacemente il personaggio davanti alla macchina da presa e, per quanto riguarda Servillo, fino al circostanziato rifiuto di qualsiasi evenienza che possa mai portarlo a dirigere un film. In quanto alla televisione, il giudizio è durissimo. Il suo peccato più grave è la diseducazione del pubblico, di cui la compagnia degli attori artisti-artigiani ha bisogno non solo per sopravvivere economicamente, ma per trovare il partner necessario, capace di reagire ai suggerimenti, alle proposte, alle illuminazioni che si irradiano dalla scena attraverso il lavoro compiuto sull'opera d'autore.
Così, nelle lunghe tournée, toccando il pubblico di molte città diverse, gli attori di una "vera" compagnia di teatro finiscono con l'assumere una nuova funzione. Diventano una sorta di "medici condotti", in grado di individuare le zone geografiche colpite dal focolaio di qualche malattia grave e quelle invece in cui si gode di buona salute. E, leggendo tra le righe del libro, nelle distinzioni tra metropoli e province, territori abitati da autentiche iniziative culturali e zone preda di una quotidiana abitudine televisiva e "assuefatte" alla sciagurata politica culturale di qualche assessore locale, il lettore può ritrovare qualche preziosa indicazione per tracciare la mappa sanitaria culturale dell'Italia d'oggi.
Claudio Vicentini
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