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Indice
Disagio temporaneo
L'avviso precisava che si sarebbe trattato di un disagio temporaneo: nei cinque giorni successivi avrebbero sospeso la corrente per un'ora, a partire dalle otto di sera. Era caduta una linea elettrica durante l'ultima tormenta, i tecnici avrebbero approfittato delle serate più miti per rimetterla in sesto. I lavori avrebbero coinvolto soltanto le case della tranquilla strada alberata, a un passo dai negozi e dalla fermata del tram, dove Shoba e Shukumar abitavano da tre anni.Non finito, debbo averlo comprato anni fa quando ero in fase accaparramento libri, adesso sono in fase, ripulitura garbage dalla libreria e quindi mi son messa a leggere quello accumulato negli anni. A vedere varie recensioni sembra che la scrittrice sia considerata una sorta di virgina woolf indiana. Sarà, personalmente la delicatezza della narrazione non mi ha detto nulla, arrivata a metà e continuando a non vedere nè sentire nulla ho deciso di mollarlo, si vede che non fa per me.
"sexy",il racconto più bello. Cosa significa?"significa..amare qualcuno che non conosci",ma anche qualcosa.Un termine forse un pò troppo azzardato,ma non è, secondo voi,sexy ed eccitante conoscere cose nuove,culture e usanze diverse?!Come quando ti metti in viaggio e sei elettrizzato per quello che vedrai e succederà.Una raccolta di brevi romanzi che mi hanno fatto scoprire un altro modo di vivere,un'altra cultura.
Recensioni
recensioni di Nadotti, A. L'Indice del 2000, n. 09
Nata in Inghilterra da genitori indiani, Jhumpa Lahiri, oggi poco più che trentenne, vive negli Stati Uniti e costituisce, a mio avviso, uno straordinario caso di maturità letteraria. Questi suoi racconti sono tra i più belli che mi sia capitato di leggere da tempo, e ciò non perché - come suggerisce la quarta di copertina dell'edizione italiana - siano "densi romanzi brevi", bensì perché sono racconti pressoché perfetti, ai quali meritatamente è andato il Pulitzer 2000 per l'opera prima.
Con sobrietà di linguaggio, grandissima sensibilità nella descrizione di luoghi e personaggi (colpisce il gusto dei dettagli, solo apparentemente minimalista, in realtà finalizzato a connotare simiglianze e dissimiglianze) e sapiente controllo dello sviluppo narrativo, Lahiri dipinge una sorta di grande retablo il cui soggetto sembra essere il mondo contemporaneo. La struttura sempre tesa, con un alone di mistero molto particolare, i cui ingredienti stanno a metà strada fra la tradizione occidentale e quella indiana, cattura ripetutamente il lettore: quale sarà la prossima invenzione, chi saranno i personaggi, quale l'ambientazione? Pur punteggiate di luoghi (Calcutta, Londra, il Massachusetts), nomi e cose ormai noti a chi segue la produzione letteraria riconducibile alla diaspora indiana, le storie che ci racconta Lahiri non sono mai scontate, anzi, procedendo nella lettura si ricava l'impressione che l'autrice voglia far piazza pulita di luoghi comuni e stereotipi mettendo in campo l'esperienza di chi è nato e cresciuto in Occidente, e in tale spazio di mondo si muove con disinvoltura, mantenendo però con il paese d'origine un legame forte e attivo. E che voglia ribadire, ora con esplicita ironia, ora con serietà e/o malinconia, ora miscelando abilmente i due registri, la doppia origine anche della propria invenzione narrativa.
"Non sono l'unico ad aver cercato fortuna lontano da casa, e sicuramente non sono il primo. Eppure ci sono momenti in cui mi sconcerta ogni singolo miglio percorso, ogni pasto mangiato, ogni persona incontrata, ogni stanza in cui ho dormito. Per quanto ordinario possa sembrare, ci sono momenti in cui tutto questo supera la mia immaginazione", conclude il protagonista del bellissimo Il terzo e ultimo continente. Di fronte all'ordinaria straordinarietà delle vite e dei casi si ha l'impressione che lo sguardo della narratrice, frammentandosi consapevolmente (come in altri consolidati autori/trici del subcontinente) in molteplici prospettive, metta a fuoco il racconto esemplare delle inimmaginabili specularità del nostro tempo. Dove confini territoriali assurdi e insanguinati assumono, dall'altra parte del mondo, la stessa valenza delle righe nere su un televisore disturbato, e la scomparsa di un'intera famiglia in un lontano paese sfregia appena il sorriso di una zucca nella notte di Halloween (Quando veniva a cena il signor Pirzada, probabilmente autobiografico, è un racconto mirabile, forse la cosa più bella che io abbia letto su come i segni della Spartizione, a distanza di oltre mezzo secolo, si allunghino fino alla seconda generazione della diaspora indiana).
Se questa può sembrare storia di alcuni, neppure il più sedentario abitante del primo mondo avrà difficoltà a immaginare il Disagio temporaneo di un black out della società postindustriale, disagio né etnico né religioso, ma umano e universale. E nel racconto che dà titolo alla raccolta l'ironia dolente di Lahiri restituisce l'India all'India sottraendo all'Occidente il monopolio dell'esotismo turistico. Il luogo è Konarak, la guida - voce narrante è l'indiano Kapasi con la sua "imponente Ambassador bianca", e i turisti sono i signori Das ("Nati in America... nati e cresciuti in America", chiarisce con spavalderia il signor Das) con i loro bambini dai nomi smarriti, Tina, Ronny e Bobby. "Sembravano indiani, ma vestiti come stranieri": calzoncini corti, scarpe da ginnastica, berretto con visiera, macchina fotografica al collo, teleobiettivo vistoso, il signor Das chiede alla guida di rallentare per scattare fotografie dal finestrino, e naturalmente fotografa "un uomo scalzo con la testa avvolta in un turbante sporco, seduto su un carretto tirato da una coppia di buoi. Uomo e buoi erano magrissimi". Intanto l'annoiata signora Das "si dava lo smalto". Estranei a se stessi, fanno e dicono cose sbagliate, come qualunque turista, e si meravigliano delle numerose famiglie di scimmie che incontrano lungo il tragitto. "Le chiamiamo hanuman" spiega la guida. E a Hanuman, il dio-scimmia protettore dei poeti, l'indiana-inglese-americana Lahiri significativamente affida la regia della storia.
Irriducibile al modello di sviluppo occidentale, sia che la si osservi dalle rampe strette di un caseggiato popolare di Calcutta (La cura di Bibi Haldar, Boori Ma), sia che la si guardi dall'abissale distanza dei sobborghi residenziali e dei campus universitari americani (Questa casa benedetta, Sexy), l'India messa in scena da Lahiri è quella che è, un antico paese di grande bellezza, abietti compromessi e precaria modernità, le cui mostruose contraddizioni tuttavia, anziché azzerare le potenzialità degli individui, ne ridimensionano le aspettative con un inaspettato (ma per chi?) recupero di umanità. Da questo specchio neppure troppo lontano che con insistenza ci rimanda la nostra diversa immagine, e ad essa ci condanna, è difficile staccarsi. Forse per questo può succedere, come è successo a chi scrive, di leggere e rileggere più volte questi racconti. Essere separati dalla signora Sen, che scrutando le onde dell'Atlantico dice: "in certi momenti le onde assomigliavano a tanti sari appesi al filo ad asciugare", appare intollerabile quanto la solitudine cui è improvvisamente confinato il ragazzino americano prima affidato alle sue cure (Dalla signora Sen).
Le suggestive immagini e l'inglese cristallino di Lahiri sono resi efficacemente dalla traduzione di Claudia Tarolo, con un neo, quel "Partition" - "Spartizione" - reso inspiegabilmente con "Scissione" (p. 87).
"Prende piede l'ipotesi che abbia lavorato per un facoltoso zamindar, a oriente, e che attinga da quell'esperienza per esagerare il suo passato in modo così articolato."
Se in epoca di globalizzazione trionfa il meticciato culturale, non possiamo non restare incantati da tutta quella letteratura che rivendica le specificità nazionali, che mostra la difficoltà dell'integrazione e il desiderio di tenere saldi i legami con le proprie radici. L'India contemporanea ha saputo offrire all'Occidente romanzi di grande spessore, autori (e in particolare autrici) di forte intensità narrativa, quali Arundhati Roy o l'universalmente noto Salman Rushdie. E proprio il riferimento ad uno dei romanzi di Rusdhie (Est, Ovest) appare immediato. Tema fondante di quel romanzo è l'uniformità di alcuni miti contemporanei, la banalizzazione culturale e la superficialità che dall'opulento Occidente si è diffusa anche nel più arcaico Oriente. Per cui la salvezza può essere il restare: culture comunque divise, quella indiana e quella inglese.
In questa raccolta di racconti il tema dominante è l'urgenza di tenere viva la propria identità originaria una volta che l'integrazione sociale e culturale nel Paese d'arrivo (in questo caso gli Stati Uniti) sia avvenuta.
Quasi sempre i protagonisti sono giovani, quindi il rischio maggiore è proprio la perdita della memoria, della tradizione e l'assimilazione tout court alla nuova, travolgente realtà americana. Nulla di passatista o di romanticamente rivolto all'indietro in queste storie, quanto un perfetto equilibrio, quasi sempre armonico, di scambio e di integrazione tra la millenaria civiltà indiana e la giovane e aggressiva cultura made in Usa.
La vicende narrate però hanno un valore in sé, non cadono nell'essere strumento di una tesi, mostrano uomini e donne travagliati e tormentati dalla quotidianità del loro vivere, da sentimenti e rapporti stanchi o da passioni brucianti che si estinguono con altrettanta rapidità. Rapporti amorosi, ma anche esperienze di lavoro e di vita, ricchezza, benessere, ma anche esclusione e povertà: è l'universo degli emigrati, spesso di seconda generazione, che hanno superato l'impatto con la diversità. L'abito, il cibo, il trucco femminile, la lingua, rimangono, storia dopo storia, a documentare le radici culturali dei vari personaggi che avvertono il pericolo della totale integrazione nella generazione successiva. Nell'ultimo racconto il protagonista-narratore, che ormai vive la normale vita di un americano medio con un tranquillo lavoro, una bella casa, un figlio che studia ad Harvard, non vuole però dimenticare il difficile impatto iniziale quando, giovane bengalese, era giunto a Londra e poi era definitivamente emigrato negli Stati Uniti: emozioni, paure, speranze, entusiasmi che vorrebbe poter trasmettere al figlio. "Allora andiamo a trovarlo a Cambridge, lo portiamo a casa per il fine settimana, a mangiare il riso con le mani insieme a noi, a parlargli bengali, perché ci viene il timore che smetterà di farlo dopo la nostra morte".
Se questo è il tema che chiude la raccolta, più intimista è quello di Disagio temporaneo, il primo racconto. Una coppia è in crisi dopo un forte trauma, la morte del figlio neonato, non riesce più a parlarsi, a comunicarsi la sofferenza che ha cambiato la vita di entrambi, rendendo la donna iperattiva e rivolta verso l'esterno, e paralizzando il giovane marito, ancora studente, che ha scelto la chiusura nei confronti del mondo esterno. Per alcune serate sono costretti, dalla mancanza di energia elettrica, ad una ormai dimenticata intimità e, alla luce di qualche candela, si dicono cose taciute da tempo. Non c'è però il "lieto fine", la crisi è irreversibile. La grandezza di Jhumpa Lahiri sta proprio in questo: come non eccede mai nel "tragico" del vivere, così non si abbandona alle false soluzioni positive che oggi definiremmo "buoniste".
Esempio ne sia il racconto che dà il titolo alla raccolta. Il curioso lavoro di "mediatore linguistico" alle dipendenze di un medico, lavoro scelto per il buon stipendio ma vissuto come umiliante dal signor Kapasi, viene improvvisamente rivalutato da una giovane donna americana di origini indiane che, con marito e figli, viene accompagnata per un giro turistico proprio da Kapasi nella sua qualità di interprete. Sentendosi finalmente apprezzato nella professione è subito dominato da un turbamento sentimentale: quella donna lo attrae, sogna un contatto futuro, la desidera. Ma ben presto quella fascinazione si interrompe, il segreto che lei gli rivela gratuitamente, il malessere ozioso che gli chiede di risolvere, la scoperta della leggerezza aggressiva di lei, lo allontanano dal sogno.
La ricchezza di temi e personaggi di questo libro ne rende la lettura coinvolgente come se ogni racconto fosse un breve romanzo perfettamente coerente, di certo meritati quindi i riconoscimenti che ha avuto dalla critica internazionale e la vittoria del Premio Pulitzer.
A cura di Wuz.it
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