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Sulla stampa di lingua inglese le recensioni de "L'intoccabile" sono entusiastiche, anche Pietro Citati, scrittore e critico letterario italiano, lo definisce "un romanzo straordinario: certo il più bello degli ultimi quarant'anni, del quale né critici né lettori hanno riconosciuto la vastità, la ricchezza, il terribile riso". Se non avessi letto l'illuminante articolo di Citati, nemmeno avrei capito la trama di questo romanzo, sono tra i lettori che non hanno saputo apprezzarlo, ne avrei volentieri sospeso la lettura, portata invece avanti faticosamente per vedere se sarebbe mai apparso un faro a diradar la nebbia di una storia inesistente, a stento comprensibile, fitta di allusioni mai esplicitate. La prosa in alcuni tratti è notevole, ma i grandi momenti si sperdono nel tessuto informe di una trama mai fluida, eccessivamente frammentata. Frasi prive di coesione interna e scollegate tra loro, provocano un andamento a singhiozzo tale da rendere la prosa scarsamente evocativa, respingente, quasi impossibile vagare con la mente, abbandonandosi ai percorsi dell'immaginazione che la letteratura solitamente fornisce. Considerato che John Banville è rinomato per il suo stile, forse tanta rigidità trae origine da una traduzione non sempre accurata, preposizioni fuori luogo, sviste, errori di stampa, possono trasformare un capolavoro in uno sgradevole stillicidio.
Recensioni
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È possibile iniziare un romanzo appena pubblicato e, in meno di cinque pagine, incappare in un'allusione a T.S. Eliot ("Aprile. Non amo E di malattia certo si tratterebbe, il tumore terminale del romanzo "modernista", che si diffonde con le cellule impazzite dell'intertestualità; o d'un compiaciuto, sterile gioco accademico, un ghirigoro sul vuoto... se le regole (o la medicina) qui non le decidesse John Banville (classe 1945), uno degli scrittori inglesi - anzi irlandese, della terra di Joyce e Samuel Beckett (sempre una garanzia; e il rischio dell'eccesso, e del difetto) - di più sicuro mestiere attualmente al lavoro. Il quale - dopo una serie di romanzi notevoli, spesso incentrati su figure storiche di scienziati (l'ultimo dei quali è La lettera di Newton, minimum fax, 1998; cfr. "L'Indice", 1998, n. 9) - con Victor Maskell, anch'egli irlandese, matematico mancato, pittore dilettante e storico dell'arte di fama, agente segreto britannico e talpa dei sovietici, figlio, fratello, marito, padre, amico e omosessuale, ha creato uno dei personaggi più attraenti e (paradossalmente, per un candidato così certo al suicidio) vitali dalla narrativa contemporanea. Magnifico affresco di cinquant'anni d'alta società inglese, L'intoccabile (ma altrettanto bene si poteva tradurre Gli intoccabili) è innanzitutto un roman à clef sulle cosiddette "spie di Cambridge", i vari Guy Burgess e Donald MacLean (qui rispettivamente Boy Bannister e Philip MacLeish) e il più famoso e deleterio Kim Philby, che nella "storia" di Banville però non appare - gli ha dedicato un pezzo incandescente anche Josif Brodsky, per ora solo nell'edizione originale di Dolore e ragione (1995), non nella scelta appena pubblicata da Adelphi. Il personaggio di Maskell è invece liberamente ispirato alla figura di Anthony Blunt (1907-1981), il grande studioso di Poussin, baronetto, curatore delle collezioni reali e, se non sbaglio, l'ultima di queste spie dei Russi a venire pubblicamente smascherata, solo poco prima della morte. Dico "pubblicamente" perché Maskell (non so Blunt) viene "tradito" due volte, la prima subito dopo aver favorito la fuga di Bannister e MacLeish in Unione Sovietica (storicamente nel '51, forse un po' più tardi nel romanzo, dove le date sono sempre piuttosto incerte), e allora la cosa resta all'interno dei servizi segreti e non viene divulgata; poi appunto alla fine della sua vita, quando è ormai malato di cancro e i suoi doppi giochi divengono di dominio pubblico. È dopo questo secondo smascheramento, in giorni in cui gli avviene di "contempl[are] la morte (...) con senso di implausibilità sempre minore", che Maskell si mette a ricostruire per iscritto il proprio passato, e anche se quel poco che gli resta da vivere riserba almeno un altro grande colpo di scena (forse la cosa più debole del libro, troppo prevedibile nella sua sorpresa), il romanzo è soprattutto in questo ampio memoriale, o diario retrospettivo: dai primi ricordi dell'infanzia nordirlandese agli anni di Cambridge, dall'unico viaggio in Russia all'improbabile matrimonio, alla guerra in Francia, alle due riluttanti paternità, al riconoscimento della propria omosessualità ("lo spasmo familiare in circostanze assai poco familiari"), alla missione in Germania per conto del re, alle glorie di studioso, ai vari "contatti" e "avventure" (per lo più incruente) di spia, alla morte accidentale (?) del compagno più amato, appunto fino ai due "tradimenti" e all'estremo, men che amletico dilemma ("In testa o nel cuore?"). È misura della maestria di Banville che un personaggio come Victor Maskell, di straordinaria intelligenza e cultura, pateticamente vulnerabile e al tempo stesso così odiosamente aggressivo, malinconico ma graziato da un irresistibile senso dell'umorismo, tenga sì banco per tutto il libro, ma senza soffocare le figure di contorno: perché se il detestabile Querrell è poco più che una feroce caricatura di Graham Greene (sarà impossibile, per un bel po', riaprirne i "problematici" romanzi!), almeno Vivienne, la moglie flapper, che sembra uscita da un capitolo di Fitzgerald o di Evelyn Waught, e soprattutto l'esuberante Boy Barrister sono personaggi decisamente veri - "a tutto tondo", direbbe E.M. Forster, riconoscendo nell'Intoccabile la propria lezione. E lo stesso vale per figure anche più secondarie come la matrigna Hettie, Danny Perkins il gigolo, la figlia Blanche, il comico "contatto" russo Oleg, la stessa Miss Vandeleur che su Maskell vorrebbe scrivere un libro (ma che a sua volta - forse senza saperlo - è forse una "spia"); o anche per quelle che sono poco più che comparse, come il dottore che gli diagnostica il cancro, o S.M. Giorgio VI ("Voltò la testa verso di me. 'Cosa ne pensa, Maskell? Lei è un conservatore tutto d'un pezzo, vero?' (...) 'Penso di essere più un liberale che un conservatore, signore', dissi. Il suo sopracciglio sinistro si sollevò, e io aggiunsi: 'Uno di quelli fedeli, naturalmente'"). E in effetti, per esser tutto filtrato da un narratore così pronto ad ammettere, non senza compiacimento, che "Le cose, per me, sono sempre state più importanti delle persone", L'intoccabile è un libro decisamente "affollato". Abbastanza per fare sorgere il dubbio che Maskell sia - nella miglior tradizione modernist - un narratore altamente "inaffidabile", per il quale la sincerità non è che la più sofisticata delle finzioni: la sua confessione a se stesso l'estrema manipolazione di una realtà che è la propria apparenza (né forse può essere altrimenti per un irlandese così bene inserito nella high society inglese). E se qui il romanzo non prende (quasi mai) il volo metafisico, è certo grazie alla splendida umoralità della voce che lo trascorre, ma anche e soprattutto alle metafore artistiche che ne regolano lo svolgimento; o, come Victor preferirebbe, "l'immobilità" (stillness, come in "still life", "natura morta"). Per questo conviene rimandare a quella pagina, forse un po' troppo didascalica, ma necessaria, in cui Maskell - mentendo sempre in perfetta sincerità - chiarisce il proprio rapporto con Poussin, "l'unica cosa immutabile e pienamente autentica" nella "miriade di mondi variabili attraverso i quali mi muovevo": "fin dall'inizio (...) vidi in Poussin un paradigma di me stesso: l'inclinazione stoica, la passione rabbiosa per la calma, la fede incrollabile nel potere di trasformazione dell'arte (...) Sogghignavo di quei critici - soprattutto marxisti, temo - che consumavano le loro energie in cerca del significato della sua opera (...) Il fatto è, naturalmente, che non c'è nessun significato. Importanza, sì; affetti; autorità; mistero - magia, se volete - ma non significato. Le figure dell'Arcadia non stanno illustrando qualche fatua parabola sulla mortalità e l'anima e la salvezza; semplicemente sono. Il loro significato è il fatto di essere lì".
recensioni di Rognoni, F. L'Indice del 1999, n. 01
la primavera, le sue pagliacciate e la sua agitazione") e una a Louis Mac Neice, in una citazione letterale da Nietzsche, in un rimando a W.H. Auden e un altro ad Andrew Marvell, incontrare un personaggio ispirato a Graham Greene, venire istruiti sull'azzurro di Poussin a partire da un dettaglio di Et in Arcadia Ego, e più generalmente sulle ascensioni del Greco - è possibile, dico, che il lettore cui viene propinata questa valanga di cultura (e chissà quante altre chicche mi sono sfuggite...!), non venga infastidito dall'esibizione? Ora della fine del primo capitolo, a quanto sopra si sono aggiunti almeno l'impagabile "materia stessa dell'insonnia" ("the very stuff of insomnia") - il bisticcio più brillante che conosca sulla battuta di Prospero nella Tempesta shakespeariana ("we are such stuff / As dream are made on") -, un'altra allusione ad Auden, un probabile omaggio all'Agente segreto di Conrad, l'inevitabile richiamo alla Recherche, e una lezione sul suicidio di Seneca, con relativo commento di Bertrand Russell e aforisma conclusivo di Baudelaire, mentre sul lato figurativo sfilano Cézanne, Carracci, Bonington e Raoul Dufy... Come dar torto a Miss Vandeleur, l'interlocutrice del narratore, la quale a questo punto l'interrompe con un impaziente "'Lo so quanto è ben educato (...) lo so quanto è colto'" - detto "quasi sputando", facendo suonare la parola "come la definizione di un disturbo", una malattia?
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