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L'immagine della Toscana che tanta presa ha esercitato ed esercita su visitatori e letterati non si costituisce per via estetica, ma per le virtù che il suo modello di vita e la correlata misura ambientale sprigionano in età moderna, a partire soprattutto da fine Settecento, allorché vengono esaltate, insieme all'eredità classica Firenze come Atene del Rinascimento, secondo un celebre luogo comune di Pierre Jean Grosley (1770) , il fervore dell'economia, il riformismo in agricoltura, un'alacrità eccezionale, non disgiunta dal senso del bello. Goethe avrebbe notato con entusiasmo come si cercasse di "unire l'utile e il pratico al grazioso": e in questa singolare sintesi avrebbe ravvisato il segreto di una durevole cifra.
Mascilli Migliorini, in questa edizione lievemente ampliata di una ricerca già apparsa nel 1995, prosegue e aggiorna uno studio che vuol essere un omaggio alla Toscana e a quanti della Toscana hanno discusso. Sismondi, ovviamente, fa la parte del leone nel ritrarre la regione come giardino dell'Italia, "che è come dire giardino dell'Europa". Anzi, è proprio questo il punto sul quale più si insiste: la Toscana incentrata su Firenze è elevata a espressione tipica dell'Italia. E l'Italia comunale, così come il rigoglio delle repubbliche in contrasto tra loro, sono alla base di una vocazione manifatturiera e capitalistica che fa tutt'uno con la "civiltà italiana". L'"anticipazione" borghese del secolo d'oro aveva un ruolo ben più decisivo di quello attribuito dai viaggiatori a Pietro Leopoldo e al suo illuminato governo. Per certi versi il reggimento dei Lorena riprende un filo ben rintracciabile, anche se nascosto o sotteso, nelle vicende precedenti. Rispetto ad altre realtà, la Toscana occupa una posizione privilegiata, perché "al crocevia dei due processi di definizione nazionale e definizione regionale".
A voler inserire, a questo punto, una divagazione banalmente attuale, si potrebbe dire che si diffonde un'idea che sta all'opposto del becero separatismo padano: qui la regionalità, per i tratti universali che rimanda e l'esemplarità dei risultati che propone, non esibisce alcuna boria isolazionista. Gli antenati etruschi sono evocati per dar ragione di un'energia appassionata, di un terragno eroismo. Il mito del Pantheon di Santa Croce, alimentato da Ugo Foscolo, è l'approdo di una linea interpretativa che annovera pagine e pagine, intuizioni, approssimazioni, analisi. Ancora Sismondi enfatizza l'attaccamento a una consapevolezza della libertà individuale, che si sposa con una severa nozione di sovranità "non abbandonata alla pluralità", povera e ignorante.
Giovan Pietro Vieusseux, un altro ginevrino, sarà l'organizzatore di cultura che più contribuirà a incardinare sul modello toscano un'idea morale dell'Italia da costruire. Come si sa i miti sono duri a morire, e talvolta la luce da essi emanata si avverte anche quando la stella che l'origina si è fatta opaca. Così è stato per la toscanità fiorentina, che ha relegato in sott'ordine culture e tradizioni di altre parti di una regione in realtà molto plurale e affezionata alle sue interminabili controversie. Anche l'Italia dei Comuni, così operosa e laica, ha una seduzione, in Quinet, assai meno attraente: a lui "non parla di libertà, ma di paura religiosa e politica". Le ombre del passato sembrano sovrastare o impedire la forza del presente. John Ruskin si porta dietro la Storia delle Repubbiche italiane di Sismondi, ma la sua Toscana è meta di un pellegrinaggio alla ricerca di una raffinatezza ridotta a reliquia, a lacerti di una perduta armonia. Henry James ritiene che lo scrigno di bellezza, custodita nei palazzi illustri e nei borghi collinari, non abbia più un rapporto fecondo con il presente. E Aby Warburg opporrà irrevocabilmente l'"arte della vita libera di espandersi" del pieno Rinascimento alla convulsa ed egoistica democrazia mercantile dei nostri tempi.
Solo nelle pagine dell'Inventario di Piero Calamandrei la "dolce patria" acquisterà di nuovo misura morale e inviterà a una ricostruzione non immemore di una stupenda lezione di sobrietà. Contro gli estetismi di Bernard Berenson, che pretendeva Firenze risorgesse dalle rovine assumendo un pigro e falsificante criterio mnemonico, Ranuccio Bianchi Bandinelli proclama è il 1945 una sfida ardimentosa: "Noi italiani ci rifiutiamo di non essere altro che custodi di un museo, i guardiani di una mummia". Tra devota museificazione e disinvolti tradimenti, il giardino non sarebbe riuscito a rifiutare più di tanto i guasti crescenti di laceranti ferite e di un rapace e corrivo consumismo: immerso anche in questo entro un destino nazionale, seppure con una sua peculiare distanza.
Roberto Barzanti
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