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Illegibile, le recensioni gia'scritte riportano esattamente il mio pensiero. Tempo sprecato e soldi buttati.
Da Pansa mi aspettavo qualcosa di meglio e di più serio!
Concordo con chi ha già scritto che questo è il peggior libro di Pansa, e aggiungo: il più 'furbetto': Ma è scioccamente furbetto perché, a leggerlo, si capisce subito il trucco: il discorso sull'Italia che non c'è più si trova soltanto nell'ultimo capitolo, dove però ci sono osservazioni scontate, sentite già fino alla noia. La gran parte del libro, le prime 200 pagine su 316, è costituita soprattutto da raccontini di 'scopate' (chiedo scusa per la volgarità, ma non so che termine, altrettanto efficace, usare). Si potrebbe dire che si tratta di barzellette sessuali che non fanno neppure ridere. Poi ci sono ritratti di politici e giornalisti, ma sono abbozzi troppo semplici, fatti risaputi, che forse possono dire qualcosa di interessante ai giovani, i quali non credo che li leggeranno perché Pansa è un scrittore anziano per anziani. I difetti che Pansa attribuisce all'Italia di oggi mi sembrano gli stessi di ieri, di sempre. Oggi però sono più gravi, o forse solo più evidenti. Per esempio Pansa dice (capitolo 33): "Un altro sintomo molto pesante della nostra decadenza... è l'importanza eccessiva conquistata dal sesso nella vita quotidiana". Ma come? Pansa dedica 200 pagine a parlare del sesso nella rimpianta Italia degli anni '40/'80 e ammette di essere sempre stato, lui personalmente, un assiduo amatore! E infine, se "l'Italia non c'è più" (titolo ambiguo e attrattivo) come fa a dire che ha difetti? Mi sembra più corretto il sottotitolo "Come eravamo, come siamo", perché siamo sempre gli stessi italiani, però un po' peggiorati e sicuramente più sfacciati. Ma per dire una verità così lapalissiana non c'è bisogno di scrivere un libro.
Recensioni
Un libro che si legge come un'autobiografia e che tramite il racconto di un passato glorioso e ormai lontano cerca di dare una chiave di lettura ad un futuro dai tratti sempre più oscuri
«Ma se stiamo decadendo davvero, in quale modo si può impedirlo? È inutile che qualche lettore mi chieda una risposta. Non è più una faccenda che mi riguardi. A farci i conti saranno gli italiani più giovani di me. Sono loro a essere in pericolo, non io. Tante generazioni stanno correndo verso il ciglio di un burrone, senza rendersi conto che vi cadranno dentro e lì resteranno. Sempre che Santa Scarabola, la patrona delle imprese impossibili, non gli faccia aprire gli occhi finché sono ancora in tempo.
Si stava meglio quando si stava peggio. Il diktat che muove L’Italia non c’è più, ultima fatica editoriale del giornalista piemontese sembra essere abbastanza chiaro, senza bisogno di girarci troppo intorno.
Una sequenza di diapositive, alcune delle quali ormai usate e abusate, dove viene rappresentato il Bel Paese che fu, come una vecchia pellicola di pregio proiettata in un cinema d’essai in periferia.
Non è un’autobiografia ma poco ci manca. Vi racconto la vostra vita. Queste le parole usate da Pansa nel descrivere il suo libro, che più che raccontare la vita di chi legge, fa una carrellata sui trascorsi di quella di chi scrive, una sequenza aneddotica che va dagli anni delle leggi razziali fino ai primi focolai di Tangentopoli. Con il protagonista, Paolo (giornalista prossimo agli ottant’anni e in pensione da un pezzo) che espone il suo mémoir a Carlotta, giovane ventenne, aspirante giornalista tanto maliziosa quanto fondamentalmente ignorante, su passato, presente e futuro delle tante storie che si accinge a trascrivere.
Storie legate da quel fil rouge continuo e inesauribile rappresentato dal sesso (aspetto che negli ultimi libri di Pansa è diventato abbastanza un chiodo fisso, forse un po’ troppo), storie che sanno tanto di amarcord, fatte però da una memoria selettiva che ripesca gli aspetti positivi di un passato in bianco e nero lasciando tutta la negatività ad un futuro più plumbeo che mai.
Perché alla fine è questo l’insegnamento di fondo che questo libro sembra voler dare al lettore: l’Italia, quell’Italia lì, non c’è più, e ha lasciato spazio ad un surrogato dal gusto agrodolce che si è costretti a mandar giù tutto d’un fiato turandosi il naso.
Recensione di Andrea Papa
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