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Italianità. La costruzione del carattere nazionale
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Italianità. La costruzione del carattere nazionale - Silvana Patriarca - copertina
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Italianità. La costruzione del carattere nazionale

Descrizione


Dai primi anni Novanta del secolo scorso l'interesse degli italiani per la questione dell'identità nazionale non accenna a diminuire. Le preoccupazioni per la fragilità dell'assetto nazionale si accompagnano alla questione della modernità, o della scarsa modernità, del paese e della qualità della sua cultura civile. Come mai un concetto come "carattere nazionale", che ha perso legittimità in campo teorico, è ancora tanto radicato nella cultura popolare? Che genere di popolo siamo e perché ci comportiamo così? Nella turbolenta storia dell'Italia del XX secolo, crisi di regimi politici hanno generato ricerche di cause e responsabilità, se non esami di coscienza, e spesso il ricorso all'idea del carattere ha fornito un modo per addossare colpe e responsabilità a quel certo fattore "immutabile", l'eterno carattere degli italiani. Questo libro mette a fuoco i vizi, le virtù, le autorappresentazioni, gli stereotipi ricorrenti del nostro paese e la loro presenza nel discorso di intellettuali e politici nel corso della storia dell'Italia contemporanea, dal periodo della lotta per l'indipendenza e per l'unificazione nazionale, quando il carattere degli italiani cominciò a essere percepito come un problema politico, attraverso le varie fasi della storia politica e culturale postunitaria, fino agli anni più recenti quanto si è riproposto come una questione di riflessione pubblica.
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Dettagli

3
2010
4 febbraio 2010
XXVIII-320 p., Brossura
9788842092070

Voce della critica

Scrivere sul "traffico di stereotipi nel quale i popoli europei sono stati coinvolti almeno dal tardo Medioevo nel contesto della nascita delle idee moderne di nazione e di patriottismo" è una materia affascinante ma costringe alla ricerca di fondamenta in un terreno pieno di sabbie mobili. L'autrice compie quest'opera di edificazione con particolare maestria, tralasciando quella serie di discorsi che si è sviluppata nei secoli "sui temperamenti e sulle tendenze dei popoli", sui loro "costumi" e "spirito", e si concentra, invece, sul "discorso del carattere nazionale" che ha preso forma storica, in direzione etnico-culturale, a partire dall'Illuminismo, e che è entrato a far parte del repertorio del nazionalismo. Oggi siamo in grado di storicizzare quel discorso, anche perché il successo di questo concetto si è affievolito negli ultimi decenni, non essendo più uno strumento di pedagogia civico-nazionale per esortare gli italiani alla loro rigenerazione politica e morale, come era avvenuto, seguendo la dettagliata ricostruzione di Patriarca, durante il Risorgimento. La questione del "carattere" nazionale degli italiani è diventata oggetto di studio ed è possibile indagare criticamente l'operato dei cosiddetti "ingegneri dell'italianità" (Giuliano Bollati) e analizzare la forma e la funzione storica che questo "discorso" ha assunto nell'età contemporanea.
Per individuarne lo strutturarsi nel tempo, l'autrice esamina la produzione italiana degli autostereotipi attraverso una serie di testi politici, storici, sociologici e giornalistici, scritti tra inizio Ottocento e metà Novecento e pubblicati spesso con grande successo editoriale, con l'intento di offrire "una genealogia di alcune influenti idee sui difetti del carattere italiano, mettendo in rilievo il contesto storico in cui sono emerse". Il lettore viene trascinato in una parata affascinante dove sfilano le proposte interpretative sul carattere nazionale intrinseco degli italiani avanzate da vari intellettuali, filosofi, scrittori, giornalisti e politici, che l'autrice ritiene abbiano costituito un influente gruppo di opinion leader. Patriarca non analizza i testi narrativi ed esclude la fiction, ma fa un'eccezione per il cinema del dopoguerra, soprattutto per i film che hanno Alberto Sordi come protagonista, perché il cinema, a detta sua, ha avuto "un ruolo significativo nella costruzione e nella diffusione dell'immagine anche visuale dell'italiano tipico, immagine che nella prosa giornalistica è spesso diventata tutt'uno con la realtà". Sarebbe stato il cinema italiano degli anni del dopoguerra a fare del carattere nazionale "un cliché di massa e un oggetto di consumo popolare", fino a diventare "realmente parte di un senso comune più diffuso". Maggiori responsabilità avrebbero avuto immagini comunicate da certi film come L'arte di arrangiarsi, per esempio, capaci di trasformare "in una sorta di tratto caratteriale una pratica di cooptazione adottata dalle élites del paese per stabilizzare, in determinati momenti, il loro potere".
A prescindere da questo excursus sul cinema postbellico, Patriarca si concentra sui testi pubblicati e non analizza le immagini, la cultura visiva, le pratiche culturali o la cultura materiale, altri potenziali campi di indagine per l'individuazione e l'evoluzione di un certo discorso sul "carattere nazionale" degli italiani. L'autrice è consapevole del fatto che, così facendo, prende in considerazione soprattutto il lavoro degli intellettuali e non considera "l'eventuale ruolo di altri attori sociali e della cultura popolare". Dà invece un'importanza particolare ai linguaggi e alle metafore, ai tropi e ai topoi narrativi inerenti a questo discorso, in quanto tali forme linguistiche avrebbero contribuito a strutturare il pensiero e i concetti dei lettori. Non a caso, la presunta e storica "degenerazione" degli italiani (denunciata in tante rappresentazioni del carattere italiano, in particolare in quelle elaborate nell'Ottocento) viene spesso rappresentata con un linguaggio "pieno di metafore a sfondo sessuale". Il "rimedio", che ci si auspica nei tropi narrativi del discorso nazionalista, viene individuato in un processo di "vera e propria re-virilizzazione". Anche la retorica mussoliniana sul cosiddetto "uomo nuovo" del fascismo si può quindi leggere come un contributo specifico, ancorché poco originale, al discorso genderizzato nazionalista, ma con nuovi e particolarmente disastrosi effetti di massa.
Nella ricostruzione del carattere nazionale si delineano diverse fasi. Durante il Risorgimento, "i patrioti e nazionalisti italiani oscillavano spesso tra una esaltazione arrogante della 'superiorità' della propria cultura e una scoraggiata deprecazione del proprio stato di inferiorità". Ma anche fatta l'unità d'Italia, l'idea di uno specifico carattere nazionale "costituiva uno strumento del nation-building" utilizzato dai missionari dell'idea di "edificazione della Nazione". Certo, si dimostrò strumento abbastanza limitato per un paese "in cui una Chiesa potente si oppose decisamente allo Stato nazionale per molto tempo dopo la sua creazione" e dove la "questione regionale e quella religiosa erano solo due dei tanti fattori di divisione che in Italia indebolirono il governo liberale fin dall'inizio del nuovo Stato". Dopo il 1945, il ricordo delle catastrofi del nazionalismo e del fascismo ha fatto sì che lo strumento della narrazione patriottico-esortativa di un certo carattere nazionale, cioè l'idea di uno stato ancora da raggiungere, con la necessità di dover "forgiare" l'"uomo nuovo" e l'"italiano moderno", venne relegato nel limbo. Visto che tanti intellettuali ex filofascisti sentivano ora il bisogno di spiegare agli italiani l'avvento del fascismo, cominciò non soltanto una nuova fase del discorso sul carattere nazionale italiano, ma anche una sua nuova funzione, cioè quella giustificatrice.
L'autrice spiega in maniera convincente che il "fare ricorso ad autostereotipi del carattere nazionale ha fornito varie volte più o meno comode giustificazioni". Particolarmente illuminanti sono le pagine sull'elaborazione del passato fascista dove questa funzione del "discorso" salta agli occhi. Le "rivisitazioni opportunistiche del passato", come quelle di Longanesi o Prezzolini, permettevano ai fascisti di "nascondersi nella nebbia di una responsabilità generalizzata". Il ricorso alla narrazione "caratteriale", con i suoi tanti topoi e tropi, ha potuto perciò costituire uno strumento per deviare l'attenzione dell'opinione pubblica dalle responsabilità concrete dei singoli individui verso una dimensione presuntamente "eterna" e "antropologica", e ha svolto – anche quando metteva sotto processo il carattere degli italiani – una funzione precisa ed efficace, cioè disorientare il discorso pubblico per non arrivare mai a un vero esame di coscienza. In questo modo il Sud visto come "altro interno", ma anche la meridionalità dell'Italia stessa potevano diventare il "principale capro espiatorio di tutti i guasti del paese". Nel secondo dopoguerra il tropo del "bravo italiano" e degli "italiani brava gente" svolgeva la sua funzione autoassolutoria e verteva in positivo proprio quei tratti che erano disprezzati precedentemente da nazionalisti e fascisti (il "sentimentalismo" e l'"indolenza", per esempio) e che "diventavano ora virtù che, facendo dimenticare il recente passato, rendevano il paese di nuovo invitante per le folle di turisti" del miracolo economico. Il discorso del carattere nazionale, portato avanti da intellettuali di spicco, ha svolto (e forse svolge ancora) varie funzioni importanti. Tra l'altro, ha permesso di raccontare il passato e spiegare i crolli e i fallimenti, soprassedendo sulle sconfitte e sminuendo le responsabilità degli artefici della dittatura e delle élite fiancheggiatrici. Alla fine di questo brillante libro rimane aperto un problema metodologico di fondo: lo storico che vuole studiare "il discorso del carattere nazionale" non si trova al di fuori di esso, ma anzi, proprio attraverso la scelta degli autori e dei testi da esaminare, contribuisce egli stesso alla costruzione di questo "discorso". Il titolo del libro è perciò doppiamente calzante. Lutz Klinkhammer  

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