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Lasciar andare - Philip Roth - copertina
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Descrizione


Tradotto in Italia solo nel 2016 è il primo romanzo di Philip Roth scritto nel 1962. Ed è bello scoprire come la sua scrittura fosse tanto corrosiva e narcisistica anche all’inizio, è bello scoprire che è stato un enorme ego e una magistrale forza descrittiva della società borghese a farlo diventare in seguito un autore di culto per molte generazioni.

"In quel periodo ero sottotenente d'artiglieria, di stanza in un angolo desertico e sperduto dell'Oklahoma, e il mio unico legame col mondo dei sentimenti non era il mondo stesso, ma Henry James, che da qualche tempo avevo cominciato a leggere". Congedato poco tempo prima dall'esercito, ancora scosso dalla recente morte della madre, libero dai vecchi legami e ansioso di crearsene nuovi, Gabe Wallach entra nell'orbita di Paul Herz, un compagno di studi, e di Libby, la malinconica moglie di Paul. Il desiderio di Gabe di mettere in relazione l'ordinato "mondo dei sentimenti" che ha conosciuto nei libri con il mondo reale si scontra prima con gli sforzi degli Herz di fare i conti con le difficoltà della vita adulta e poi con le sue stesse relazioni sentimentali. La volontà di Gabe di essere una persona seria, responsabile e generosa col prossimo viene messa alla prova dal rapporto con Martha Reganhart, una donna divorziata, madre di due bambini, vivace, senza peli sulla lingua. La complessa relazione di Gabe e Martha, e la spinta di Gabe a risolvere i problemi degli altri sono al centro di questo primo, ambizioso romanzo, di Philip Roth: ambientato negli anni Cinquanta, tra Chicago, New York e Iowa City, è il ritratto di un'America definita da vincoli sociali ed etici profondamente diversi da quelli di oggi.
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Dettagli

2017
Tascabile
31 gennaio 2017
777 p., Brossura
9788806233013

Valutazioni e recensioni

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Filippo
Recensioni: 5/5
Prima perla

Ho finalmento recuperato il primo romanzo di Roth, dopo avere letto la sua bibliografia completa. Confesso che mi aspettavo un libro al di sotto della sua media, essendo la sua opera prima. E invece mi sono dovuto ricredere. In 777 pagine (romanzo piu’ lungo dell’autore) sono rimasto incollato dalla prima all’ultima pagina. Che dire, FAVOLOSO

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Carmine Esposito
Recensioni: 5/5

Questo romanzo già dalle prime pagine si fa notare per il modo splendido in cui è stato scritto.I luoghi, i personaggi e le loro emozioni sono descritti con una tale maestria che il lettore in poco tempo riesce a farsi un' idea della loro personalità e del loro carattere. Ambientato negli anni cinquanta con una morale nella società americana molto diversa da quella di oggi, con maggiori scrupoli e tormenti interiori che Philip Roth descrive in modo eccellente. Chi lo legge può avere sicuramente nostalgia di tempi in cui i valori e i sentimenti commuovevano per l'abnegazione e la semplicità. Un grande romanzo nonostante Roth lo abbia scritto all'inizio della sua carriera. Lo consiglio vivamente per un ottima lettura.

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Giorgia
Recensioni: 3/5

Premetto che Roth è uno dei miei scrittori preferiti e che il libro è comunque piacevole, tuttavia è stato quello che mi ha convinto meno. Credo che il mio problema sia stata l’eccessiva lunghezza: non sono riuscita a entrare pienamente nella storia. È pur vero che questo è il primo romanzo dell’autore e posso dire che si nota: l’ho trovato un po’ acerbo ma i temi suoi cari ci sono tutti (donne - ebrei - soldi - sesso - famiglia). In definitiva mi è piaciuto ma non mi ritengo pienamente soddisfatta.

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Voce della critica

Gabe Wallach
Cova il malessere di tanti giovani ricchi ma mediocri: non sa bene che cosa fare di se stesso. […]. Ha un reddito, è in perfetta salute, e crede non solo nel perseguimento, ma nel raggiungimento della felicità. Purtroppo, ciò in cui crede non esercita un grande effetto sulle sue azioni. Se la sua buona sorte fosse inevitabile, non dovrebbe avere tante difficoltà e compiere delle scelte. Per essere un ottimista, è molto nervoso e indeciso. Poniamo che la felicità si metta a sculettare e danzare buttandosi allegramente giù da un burrone: lui la seguirebbe?

Al centro dello spazio rothiano sempre loro, le relazioni. Questo già dagli esordi, nel lontano 1962, quando lo sconosciuto Philip Roth aveva solo 29 anni e alle spalle un’acerba raccolta, Goodbye Columbus.
Universi piccoli, quelli del suo primo romanzo, costretti nelle ambientazioni grigie e umide degli anni Cinquanta americani e affollati da piani di relazioni portate al parossismo, che s’intrecciano, si accavallano, s’inseguono. Il giovane Roth, nonostante la prolissità degli esordi, mette in gioco fin da subito quelle che sarebbero state le carte della sua indagine letteraria negli anni a seguire: la religione (e in particolare il rapporto con l’ebraismo) il sesso, la morte, l’amore, il rapporto con la famiglia, la sofferenza empatica, l’ossessione per le relazioni e gli assilli dell’io proiettato nella società. Sono temi ancora acerbi, ma è proprio questo il momento per coglierli e riflettere a ritroso su questo grande scrittore, per penetrare nella nascita della sua poetica, grazie a questa nuova traduzione di Norman Gobetti per Einaudi.

Al centro della storia, Gabe Wallach: giovane e ricco ebreo di New York, Gabe è uno studente universitario annoiato dal suo status sociale e incastrato tra l’universo delle relazioni che gli gravita intorno e il disagio dell’immagine che di sé vorrebbe proiettare dentro questi legami. Cresciuto nel religioso credo letterario di Henry James, Gabe cerca di dare un ordine al suo mondo attraverso una catalogazione dei sentimenti messa a confronto con l’universo dei suoi libri, e sbriciolata in modo fallimentare nella realtà che lo circonda.
Il suo è l’affanno della proiezione di se stesso che va a infrangersi nel dolore della madre persa che ha lasciato l’ingombrante vuoto di un’autorità morbosa, e nel rapporto con il padre – dentista rinomato di New York – che si lascia sopraffare dalla malinconia e dal tedio piatto della sua vedovanza, attaccandosi a Gabe con tutto l’egoismo di un affetto che gli è dovuto per legame di sangue. Alla ricerca di un lancinante bisogno di colmare la solitudine, il padre pretende dal figlio tutto l’affetto possibile facendo leva sui sensi di colpa e ricambiando il suo amore con pulizie odontoiatriche, surrogato di un affetto che profuma d’infanzia e gesto manipolatore di autoritarismo paterno.

Al centro della vita di Gabe gravitano gli Hertz: una coppia di giovani universitari sposati, in crisi matrimoniale precoce e consumati dalla povertà che li opprime. Paul Hertz, schivo e difficile, sogna di diventare docente universitario, Libby malinconica ed egocentrica, vive nel piacere del lamento autoreferenziale e nel terribile rapporto con i suoceri che non hanno mai accettato la sua fede religiosa. Gabe gravita intorno a queste figure e, cercando sempre di fare di sé una persona seria e generosa con gli altri, finisce di spingersi un po’ troppo nelle vite altrui, saltando tra la ripetitività e la futilità delle vite che incontra, alla ricerca di risposte nascoste tra le noia e i limiti del destino. Senza forse trovarle realmente. Il suo complesso rapporto con Martha Reganhart, donna divorziata con due figli e dalla spiccata capacità oratoria priva dei filtri del “buon senso”, mette Gabe alla prova nella complessa crisi esistenziale che lo pone nel desiderio di voler aiutare a tutti i costi gli altri, forse allo scopo di soddisfare un certo appagamento personale.

Lasciarsi andare è un romanzo figlio dell’America di quei ponderosi anni Cinquanta, affannato tra New York, Chicago e Iowa City. È un romanzo modellato sulla spigolosa realtà delle relazioni sociali dell’epoca, irrigidite da quegli anni complessi e che solo la composita penna di Roth riesce a descrivere con le giuste sfumature della sua prosa acerba, ma accuratamente fluida, corrosiva e narcisistica, fino a toccare una morbosa autoreferenzialità. Un Roth aggressivo e accurato nell’introspezione psicologica, un accumulatore di personaggi ossessionati da loro stessi e dagli altri, sospinti nella sazietà dei dialoghi, densi e complessi. Un Roth disilluso e sommesso, sarcastico fino a logorare la pagina, un Roth intenso e amareggiato che serba ancora una fresca ironia non ferita da quelle lesioni dell’esistenza che incontreremo nella sua seconda pienezza letteraria. Un romanzo essenziale e necessario per cogliere in nascere la genesi del più grande scrittore vivente d’America, per aggrapparsi al bisturi della sua lingua. Precisa e tagliente. Rarefatta e spessa, con involontari riverberi del romanzo dell’io, dai sbiaditi contorni ottocenteschi.

Recensione di Jessica Chia

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Conosci l'autore

Philip Roth

1933, Newark, New Jersey

Philip Roth (Newark 1933 - Manhattan 2018) è stato uno scrittore statunitense. Figlio di ebrei piccolo-borghesi rigorosamente osservanti, ha fatto oggetto della sua narrativa la condizione ebraica, proiettata nel contesto urbano dell’America dell’opulenza. I suoi personaggi appaiono vanamente tesi a liberarsi delle memorie etniche e familiari per immergersi nell’oblio dell’attualità americana: di qui la violenta carica comica, ironica o grottesca, che investe anche le loro angosce. Dopo un primo, felice romanzo breve, Addio, Columbus (1959), e i meno incisivi Lasciarsi andare (1962) e Quando Lucy era buona (1967), Roth ha ottenuto la celebrità con Lamento di Portnoy (1969).Dopo Il grande romanzo americano (1973, riedito in Italia da Einaudi nel...

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