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Recensioni Les Danaïdes

Les Danaïdes di Antonio Salieri
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«Una sera, andai all’Opéra. Davano Les Danaïdes di Salieri. Il magnifico sfarzo dello spettacolo, l’armoniosa massa dell’orchestra e dei cori, il talento di Madame Branchu nel rendere il pathos, la sua voce straordinaria, la grandiosa durezza di Dérivis […] mi misero in un tale stato di esaltazione e di turbamento che non provo nemmeno a descriverlo.»
È in questi termini entusiastici che Berlioz racconta il suo primo contatto con una delle opere più rivoluzionarie dell’Ancien Régime. Va riconosciuto ad Antonio Salieri, brillante allievo di Gluck, di avere presentito i palpiti del romanticismo nascente e di aver permeato il tragico destino d’Ipermestra di un pathos e di un’intensità che il suo stesso maestro non raggiunse che occasionalmente. L’orribile complotto ordito da Danao e dalle sue figlie conduce lo spettatore da scintillanti palazzi a cupe caverne e si conclude nel cuore stesso degli inferi, ove demoni, furie e avvoltoi vendicheranno l’assassinio collettivo dei figli di Egitto…

Il contesto
L’enfasi teatrale con cui Berlioz racconta, nel 1858, la sua scoperta delle Danaïdes di Salieri, al suo arrivo a Parigi negli anni Venti dell’Ottocento, è una testimonianza inequivocabile del forte potere catartico di quest’opera, scritta nel moderno stile di Gluck. A suo tempo, la prima rappresentazione dell’opera, andata in scena nell’aprile 1784 all’Académie royale de musique, non aveva certo lasciato insensibile il pubblico. All’epoca, il mondo parigino dell’opera stava attraversando una fase di relativa calma, dopo essersi violentemente accanito in una disputa decennale. Il fiasco di Écho et Narcisse di Gluck nel 1779 e l’illusorio successo dell’Iphigénie en Tauride di Piccinni nel 1781 avevano posto fine alle polemiche che contrapponevano i partigiani di Gluck, seguaci della musica tedesca, a quelli di Piccinni, favorevoli a un’apertura alle influenze italiane. Furioso, Gluck si ritirò a Vienna e pensò addirittura di porre termine alla propria carriera. Tuttavia, sin dall’estate del 1780, si cominciò a preparare una memoria, che venne in seguito presentata a Necker e al re, da inviare all’imperatore d’Austria tramite la regina Maria Antonietta per ottenere l’autorizzazione a richiamare il compositore a Parigi. Gluck rispose quasi subito a una lettera che gli venne spedita in parallelo, e iniziarono le trattative sul libretto delle Danaïdes. Fu così che, nella primavera del 1784, si poté annunciare ufficialmente il suo ritorno sulle scene dell’Académie royale de musique con una nuova opera, Les Danaïdes, la cui prima rappresentazione si svolse il 26 aprile. Gluck finse di accettare il libretto tradotto da Roullet e Tschudy, ma in realtà lo affidò immediatamente al suo allievo Antonio Salieri, come lui residente a Vienna. Quest’ultimo vi lavorò rapidamente – forse avvalendosi dei consigli di Gluck, che conosceva perfettamente il gusto francese –, ma non presentò l’opera a proprio nome alla direzione dell’Académie royale de musique. Gluck conosceva troppo bene l’ambiente musicale parigino, con le sue cricche e le sue trappole, per dare Salieri in pasto a un pubblico così difficile; di conseguenza, per facilitare l’accoglienza delle Danaïdes, dichiarò di essere il principale autore della musica, da lui composta in collaborazione con il proprio allievo – per lo meno, fu così che l’opera venne presentata alla stampa alla vigilia della prima. Gluck aspettò che il suo successo si consolidasse prima di rivelare l’inganno, quando ormai era troppo tardi perché il pubblico mettesse in discussione il talento di Salieri: nel frattempo, il musicista di Legnago era diventato il nuovo beniamino di Parigi e della corte (del resto, si era premurato di dedicare Les Danaïdes alla regina). Fu solo al termine della sesta replica che «Le Journal de Paris» rivelò che Salieri ne era l’unico autore. Questo gioco di disinformazione permise all’opera di imporsi immediatamente e durevolmente nel repertorio dell’Académie royale de musique, in cui rimase fino al 1828.

La musica
La partitura di Salieri corrispondeva perfettamente al gusto che era emerso a poco a poco sin dai primi anni del regno di Luigi XVI e Maria Antonietta. Il grand genre della tragedia lirica si era evoluto fino a somigliare alla tragedie classiche alla Racine; l’elemento decorativo, il meraviglioso, i divertissements di abbellimento e i balletti ne erano esclusi. Il gusto musicale propendeva ormai per il monumentale e la superfetazione espressiva: orchestra di grande sonorità potenziata con tromboni, timbani e archi vibranti, cori grandiosi incorporati nell’azione, sorprendenti armonie che si avvalevano di settime diminuite, seste aumentate e ardite modulazioni, linee vocali tese che privilegiavano il gesto eroico rispetto alla logica del fraseggio. Salieri si dedicò a distillare tutto ciò nella sua partitura, e lo fece con precisione ed efficacia.)
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