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Lettere di un padre alla figlia che si droga.Rizzoli, Milano, 1982, I. Pagine ingiallite. Piccoli segni d'usura in copertina. All'interno presenza di alcune fioriture, Un padre scrive alla figlia. È lontana, troppo lontana: perduta nei meandri della droga, sepolta in quel carcere dove non si vede né si ascolta, ma solo ci si consuma. Quel padre cerca di forzare con le parole la più invalicabile delle solitudini. Ma come l'abisso chiama l'abisso, così la disperazione senza nome chiama un'altra disperazione senza nome. È così che ogni parola gettata diventa la punta tagliente di un'autoaccusa e la speranza impossibile diventa un impossibile ricordo. La storia si ripiega sulla preistoria e la saggezza, che anche se esistesse non saprebbe riconoscersi, impara a balbettare il linguaggio dell'infanzia. Il filo dell'amore si intreccia ad altri fili fino a toccare quella distanza che ognuno di noi porta dentro di sé, a stringerla nelle trame sottili di un enigma, di una immagine prossima a dileguarsi sull'orlo tangibile della vita. Le lettere si fanno racconto ma il racconto era già da sempre in questa dominante essenziale del ricordo, dove chi scrive fa delle sue tensioni irrisolte, delle sue paure e dei suoi spasimi, delle sue stesse tradite dolcezze le linee di un itinerario che non ha principio né fine e assomiglia a un labirinto. È così che Luciano Doddoli trascende il documento e ci mostra l'enigma di un messaggio chiuso in una bottiglia e affidato a quelle acque acherontee che sono quelle del nostro tempo e che hanno ormai sommerso ogni Olimpo. Paradossalmente tuttavia, in quel "paese senza dove" che un teosofo persiano del XII secolo chiamava Nà-Kojà-Abàd, e che sta celato dietro l'inferno stesso in cui noi abitiamo, la poesia di questa scrittura trova il suo esatto equilibrio e ci da il brivido di un oscuro ammaestramento. Dietro questa storia di lettere c'è una storia segreta dove anche l'ultima delle distanze è compresa. «Vivere e cessare di vive
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