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Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi - Antonio Jannazzo - copertina
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Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi
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Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi - Antonio Jannazzo - copertina

Descrizione


Il volume ripercorre, nelle grandi linee, la vicenda del liberalismo italiano, attraverso le figure rappresentative di Croce, Giolitti, Albertini, Einaudi, Amendola, Gobetti ed altri, fino alla differenziazione tra Partito liberale e Partito d'Azione e al mutamento di scenario sorto con la nascita dell'Italia repubblicana, quando il Pli, guidato da Malagodi, rinchiuso entro i limiti di una forza di minoranza, si proiettò nella definizione programmatica del liberalismo, oltre l'ipotesi di Croce sul "pre-partito", e lungo la riflessione sulle trasformazioni dello Stato dopo la crisi del 1929.
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Dettagli

2003
1 novembre 2003
241 p., Brossura
9788849807202

Voce della critica

Nel liberalismo si possono ravvisare esperienze, sensibilità e tradizioni non solo differenti, ma destinate a esiti e percorsi sempre più divaricanti di fronte alla grandi questioni del Novecento: democrazia, totalitarismo, liberismo, programmazione economica, rapporto fra tradizione e modernità. Sicché ai protagonisti del liberalismo italiano si accompagnano i nomi di quanti, di fronte al "fallimento del liberalismo", per usare l'espressione di Roberto Vivarelli, sarebbero confluiti in una sfera democratica e di ripensamento di quell'esperienza.

Il vero tema del volume è del resto il liberalismo popolare, e cioè l'aspirazione, espressa da Giolitti, nell'anno di Pelloux, di un partito liberale capace, secondo il modello affermatosi in Gran Bretagna, di aprirsi alla nascente società di massa, di procedere all'integrazione del popolo nello stato e di prestare attenzione all'industria moderna e al ruolo regolatore e centrale dello stato. Lo stesso trasformismo giolittiano, secondo Jannazzo, va quindi interpretato come una "mediazione" e insieme come "un'azione riformatrice e innovatrice". L'obiettivo di un liberalismo popolare si sviluppa a partire dalla scissione all'interno della tradizione liberale tra salandrini e giolittiani e ingloba al suo interno anche esperienze che, come si accennava, si discostano da essa, come quella di Giovanni Amendola. Trova altresì nel Croce degli anni della dittatura fascista un precursore della riflessione sui caratteri del partito contemporaneo, di cui è cifra la "religione della libertà", interpretata come risposta all'affermazione delle religioni politiche tipiche della società massificate. È inoltre possibile, per Jannazzo, scorgere nella "destra" azionista una componente fondamentale del liberalismo popolare. Si può individuare, infine, nella gestione del Partito liberale da parte di Malagodi la conclusione della parabola di tale liberalismo. Si verificò infatti, nella circostanza, il riequilibrio geografico sotto il profilo elettorale, e l'assunzione di una struttura organizzativa formalizzata, sicché nel 1963 il Pli, con la sua contrarietà al centrosinistra, fu il vero partito dei "ceti medi riflessivi".

Jannazzo sembra comunque privilegiare, sulla base di una lettera di Croce a Tommaso Fiore del 1944, una dimensione estensiva del termine liberalismo. Eppure, la distinzione tra liberali, sia pure privati del salandrismo, e democratici, fu, nella specifica vicenda italiana, effettiva. Il liberalismo italiano, nelle sue componenti politiche, si poneva come erede di quanti uscirono vincitori dal processo risorgimentale. L'egemonia di questi ultimi fu dunque di lungo periodo, tanto che nell'affermazione delle culture politiche dei partiti di massa si volle intravedere una sorta di tradimento. Ne è spia la querelle sull'egemonia comunista nella cultura italiana, che molti affermano essere esistita. Nessuno, tuttavia, significativamente, l'ha sinora ricostruita. I democratici erano invece figli del Risorgimento sconfitto, ma, pur essendo anch'essi minoranza, non soffrirono di complessi di inferiorità nei confronti dei marxisti e dei cattolici. Consapevoli, talvolta anche troppo, della propria modernità, i democratici - e poi gli azionisti e i repubblicani - poterono così cogliere nelle culture dei partiti di massa anche contraddizioni e debolezze.

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