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recensione di Rocci, F., L'Indice 1996, n. 7
Simonetta Ortaggi, studiosa di storia sociale fra Ottocento e Novecento, in questo libro ricostruisce le origini dell'organizzazione capitalistica del lavoro, individuando nella metà delXVIII secolo i fattori decisivi di mutamento economico, politico e sociale.Attraverso un'analisi di lungo periodo, che giunge sino alle soglie del nostro secolo, identifica poi le forme di continuità con l'antico regime, che ancora sopravvivevano quando già la produzione avveniva in fabbrica e che sarebbero scomparse soltanto con la piena affermazione del capitalismo.Anche se l'interesse è rivolto soprattutto al centro e al nord d'Italia, l'ambito della ricerca è sovranazionale; si mettono in rilievo gli elementi comuni alle esperienze italiana e francese, con riferimenti al mondo austriaco e confronti con l'Inghilterra: sia pur con la cautela resa necessaria dalle particolarità della situazione britannica, in cui la rivoluzione industriale fu assai più repentina, precoce e imponente che altrove.L'autrice si misura principalmente con le tesi di Eric J.Hobsbawm e Edward P.Thompson su mondo del lavoro, tempi di produzione, introduzione delle macchine e formazione della classe operaia.Oltre a servirsi della bibliografia sui vari paesi, fa ampiamente ricorso alle fonti coeve, specie per quanto riguarda la regolamentazione dei rapporti proprietari-manodopera e la disciplina della produzione.
Ne emerge un percorso complesso ma lineare.In età moderna le corporazioni svolgevano ancora il ruolo fondamentale avuto nel passato, disciplinando l'accesso alla professione e i doveri di apprendisti e mastri.Con la metà del secolo i costi di produzione e delle materie prime resero necessarie somme crescenti di denaro, così che gli artigiani dovettero ricorrere ai prestiti dei mercanti, sino a indebitarsi in modo irrimediabile.Soltanto chi era economicamente autonomo rimase libero, mentre la maggioranza dei mastri venne ridotta a comune manodopera.Le fabbriche passavano nelle mani di chi possedeva capitali, divenuti determinanti al punto da sostituirsi all'abilità nel mestiere.
L'abolizione delle corporazioni non fu allora che un'inevitabile conseguenza.Nell'Ottocento, tuttavia, i lavoratori specializzati difesero ancora tradizionali forme d'autonomia; rivendicavano il loro diritto a non rispettare gli orari valendosi dei contratti a cottimo per liberarsi con rapidità delle loro incombenze e lasciare la fabbrica.
Nel corso del XIX secolo, infine, i proprietari riuscirono a uniformare tempi e modi di lavoro, così da razionalizzare la produzione e meglio controllare la manodopera.Privati degli ultimi spazi d'indipendenza, i lavoratori rivendicarono allora la diminuzione dell'orario e l'aumento del salario; dato che non potevano più ridurre le ore trascorse in fabbrica, rallentavano i ritmi per adeguare lo sforzo allo scarso compenso.Cessava di esistere l'antico orgoglio del lavoro ben fatto, tipico dei mastri, che ancora era sopravvissuto fra i lavoratori specializzati dell'Ottocento.Nasceva la vera classe operaia.
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