"Regista e attore italiano. Frequenta il Centro sperimentale di cinematografia con l'intenzione di diventare attore, ma, dopo essere stato aiuto di A. Blasetti, esordisce nella regia nell'immediato dopoguerra con Il testimone (1945), dando prova di una buona capacità tecnica, confermata anche dal suo ingresso alla Lux. Tra i nuovi talenti della rinascente cinematografia nazionale, è quello che, con ogni probabilità, è meno legato alla lezione neorealista, preferendo rifarsi al cinema statunitense contemporaneo, in particolare ai western delle praterie sconfinate e ai noir delle città claustrofobiche, combinati con temi e situazioni tutti italiani: ecco allora, nel volgere di pochi anni, i giovani gangster di buona famiglia di Gioventù perduta (1947), la Sicilia mafiosa trasfigurata in West dove si deve riportare l'ordine dello stato e il rispetto del diritto di In nome della legge (1949), l'esodo quasi fordiano dei poveri solfatari siciliani verso Nord di Il cammino della speranza (1950), la lotta al brigantaggio meridionale del western pre-risorgimentale Il brigante di Tacca del Lupo (1952; tratto dall'omonimo racconto di R. Bacchelli). Dietro la maestria nell'impiego della macchina da presa cova un'indecisione mai risolta tra la fascinazione nei confronti della modernità e la nostalgia del «buon tempo passato», spesso tradotta in un conservatorismo cocciuto e in uno strisciante moralismo che inquinano anche le sue prove migliori. In particolare il dittico Il ferroviere (1956) e L'uomo di paglia (1958) – il primo, asciutta cronaca del dramma di un ferroviere troppo legato alla bottiglia, il secondo, amaro ritratto della sbandata di un piccolo operaio romano per una dattilografa dall'esito tragico, entrambi con G. protagonista – sono ricognizioni anche incisive delle abitudini e usanze sociali delle classi più umili, dove, però, la ricerca di una dimensione intimista rischia di frequente la scivolata nel bozzetto patetico. Nel successivo Un maledetto imbroglio (1959), a partire dalla barocca prosa gaddiana di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, G. osserva, con smaliziato e acre cinismo, virtù (poche) e vizi (tanti) della media borghesia italiana, preconizzando, sia pure entro le maglie di un racconto giallo sui generis, coordinate e umori della miglior commedia all'italiana, ma anche anticipando gli esiti commercialmente più felici della propria carriera: vale a dire, quel pugno di ritratti, nascosti sotto la lente deformante del grottesco, antropologicamente e sociologicamente densissimi dei vari regionalismi italiani – ora la Sicilia anacronistica dei mantenuti quarantenni, ora il Veneto degli adulterii cristianamente tollerati –, da Divorzio all'italiana (1961, Oscar per la migliore sceneggiatura e nomination per la regia), con il suo uxoricidio camuffato da delitto d'onore, a Sedotta e abbandonata (1964), con la protagonista costretta da un padre tradizionalista al matrimonio riparatore, fino a Signore e signori (1965, Palma d'oro al Festival di Cannes nel 1966), con il suo campionario di bigottismi e ipocrisie. In queste pellicole, dietro la sferzante satira che colpisce impietosa una mostruosità morale prima ancora che fisica, si avverte sempre quell'ansia moralista che degenera incontrollata, soprattutto negli ultimi due, nella macchietta di superficie e nella comicità greve, preludio dichiarato dell'ultima produzione di G., quasi sicuramente la peggiore, incentrata su parabole e apologhi manierati nella loro condanna della modernità e nel vagheggiamento di un ritorno alla vita dei campi fuori tempo massimo, (Serafino, 1968; Le castagne sono buone, 1970), spesso affidati a attori inadatti (un giovanissimo D. Hoffman in Alfredo, Alfredo, 1972)."