(Ereso, Lesbo, secc. VII-VI a.C.) poetessa greca. Lasciata prestissimo l’isola natale, si stabilì a Mitilene. Tornatavi dopo alcuni anni d’esilio in Sicilia, verso il 595 sposò Cerchila. Ebbe una figlia, Cleide (nome anche della madre di S.), e fu alla guida di un tiaso di fanciulle, una sorta di comunità religioso-pedagogica legata al culto di Afrodite e delle Muse, nella quale le figlie dei nobili erano educate alla musica e alla danza, oltre che alle pratiche del culto. Questi i dati meno controversi della sua vita. Ma presto la leggenda si impadronì di S. Furono forse già i comici a diffondere la storia della sua bruttezza e del suicidio per amore del barcaiolo Faone, compiuto gettandosi da un promontorio dell’isola di Leucade. Abbandonata ormai l’immagine di una S. libertina e cortigiana, e accantonata anche la sua moralistica difesa, condotta a volte fino all’ingenuità da alcuni studiosi moderni, la critica più recente tende a ricondurre la sua poesia e il suo personaggio a un preciso contesto: il tiaso, con la sua intensa vita emozionale di gruppo, le rivalità interne o con altri tiasi, e, più in generale, il culto greco della bellezza e la valorizzazione etica e pedagogica dell’amore tra individui dello stesso sesso.S. scrisse in dialetto eolico poesie liriche (canti d’amore, inni, poemetti mitologici, epitalami o canti per nozze) che circolarono nell’antichità divise in nove libri, secondo criteri prevalentemente metrici (ma il IX libro contiene epitalami di vario metro). Abbastanza omogeneo è il loro tono, caratterizzato dall’espressione del sentimento personale. A noi restano un’ode intera e 213 frammenti, alcuni dei quali ci sono giunti per trasmissione indiretta (citazione di autori antichi), altri grazie a recenti ritrovamenti in papiri o in brandelli di volumi in pergamena scoperti in Egitto (il lavoro di restauro e di interpretazione è ancora in atto). S. è poetessa d’amore; e questo amore, che è fuoco sottile e febbre, tenerezza e gelosia, è per le giovani e belle fanciulle che venivano alla sua scuola. Ne conosciamo il nome e in parte i gesti, le parole, il destino: sono Gongila, Attide, Dica, Anattoria, Arignota. Qualcuna di loro passa alla scuola di donne rivali, che come S. educavano le giovani prima del matrimonio; altre si sposano, vanno lontano. La loro bellezza è sempre, per S., un’improvvisa rivelazione del sacro, che la fa tremare; e quando il suo cuore si tormenta per l’indifferenza di qualcuna, la dea che invoca appassionatamente è Afrodite: una delle poesie più alte ritrae appunto la figlia di Zeus che lascia la casa d’oro del padre e viene a lei per dirle parole di conforto e di speranza. Un tono più distaccato hanno gli epitalami, con il loro carattere più popolaresco, la frequenza delle riprese, la gaiezza e il riso, in carattere con la festa nuziale in cui venivano cantati. Tutto nella poesia di S. è detto con una immediatezza così spoglia, che i nessi logici del discorso risultano quasi inavvertibili.L’amore nella lirica di S. è una forza della natura alla quale nulla può resistere (Eros è «come il vento che si abbatte sulle querce del monte»). Ma è soprattutto memoria, ricordo delle esperienze passate, che si proietta nel presente; costante tensione tra la lacerazione degli affetti e la loro possibilità di rinnovarsi. L’avvicendarsi delle ragazze nel tiaso dà agli affetti di S. un carattere di continuità, nel mutare degli oggetti d’amore; espressione di questa continuità è il culto di Afrodite. È la stessa capacità di permanenza che S. chiede alla poesia, consapevole che la gloria poetica dura al di là della morte.Immensa è stata la fama di S. nel mondo greco e latino, nel medioevo e nell’età moderna. Platone la definì «decima Musa», Strabone «un miracolo». Catullo e Foscolo hanno tradotto alcuni dei suoi carmi. E all’Ultimo canto di Saffo è affidata l’interpretazione leopardiana del suo tormento.