"Attore e regista italiano. Di umili origini, frequenta il teatro in maniera dilettantesca, prima di intraprendere una carriera di successo nella rivista, abilissimo nel cucirsi addosso i panni di macchiette occasionali e di caricature fulminanti. Il sodalizio con R. Vianello gli apre le porte della televisione di stato in Un, due, tre (1954-59), fortunato programma televisivo che raccoglie scenette e parodie incentrate esclusivamente sulla coppia di comici – perfetti nello scambio di battute e complementari nei tipi, azzimato e svagato Vianello, terrigno e fisico T. – destinato a una conclusione anticipata a causa dell'irriverenza di uno sketch sull'allora presidente della repubblica Gronchi. Chiusa all'improvviso l'esperienza televisiva, si può dedicare maggiormente al cinema, dove è attivo fin dal 1950 (I cadetti di Guascogna di M. Mattòli), in compagnia di altri talenti dell'avanspettacolo (il medesimo Vianello, W. Chiari) in commediole senza pretese, spesso come spalla di Totò (Totò nella luna, 1958, di Steno). Con gli anni '60 il suo personaggio subisce una salutare trasformazione, dando prova di un carattere completo e di autonomia creativa prima interpretando il mite impiegato tiranneggiato dalla vita in Il mantenuto (1961), suo esordio nella regia, e poi con il patetico ufficialetto fascista percosso dalla storia in Il federale (1961) di L. Salce. Nell'epoca d'oro della commedia all'italiana vive la sua stagione migliore di attore, azzeccando grandi successi (La marcia su Roma, 1962 e I mostri, 1963, di D. Risi, in entrambi in gara di bravura con V. Gassman), ma anche riuscendo a sfumare in direzioni inedite i suoi ruoli, spesso evidenziando agre incarnazioni di paure che si agitano sotto l'euforica epidermide del boom (soprattutto la mezza età e lo spettro della vecchiaia, mirabilmente resi nei ganimedi di La voglia matta, 1962, di L. Salce e La bambolona, 1968, di F. Giraldi). Con il marito condotto alla morte dall'appetito sessuale della consorte in Una storia moderna: l'ape regina (1962) inizia una coraggiosa ma proficua collaborazione con il sulfureo M. Ferreri, che gli offre personaggi spesso difficili e ambigui, nei quali il pubblico si rispecchia con fastidio: il ripugnante impresario di La donna scimmia (1964), la galleria di maschi inadeguati di Marcia nuziale (1966), fino a uno dei funerei crapuloni di La grande abbuffata (1973), passando anche per piccoli, ma incisivi, ruoli in L'udienza (1972) e Non toccare la donna bianca (1974). Anche la sua carriera di regista segue strade originali, con la riduzione del racconto di D. Buzzati Il fischio al naso (1967) impregnato di atmosfere quasi kafkiane, prima di approdare al qualunquismo satirico di Sissignore (1969) e alla farsa non sempre elegante di Cattivi pensieri (1976). Se la sua presenza è una garanzia per il pubblico e i produttori, T. ripaga la fiducia con interpretazioni sempre più sottili, lontane dalla comicità sbracata o dalla ripetizione a oltranza dei medesimi vezzi, indipendentemente dal fatto che sia protagonista (Il commissario Pepe, 1969, di E. Scola, primo di tanti tutori dell'ordine resi con stropicciata umanità; ma anche il magistrato deciso a far condannare l'industriale intrallazzone Gassman nel profetico In nome del popolo italiano, 1971, di D. Risi), comprimario (il surreale marito muto di Straziami, ma di baci saziami, 1968, di D. Risi) o semplice comparsa (il fulminante cammeo come vecchio arnese in disarmo della rivista in Io la conoscevo bene, 1965, di A. Pietrangeli, che gli vale anche un Nastro d'argento, senza dimenticare la prestigiosa partecipazione all'apologo pasoliniano di Porcile, 1969), magari in produzioni internazionali (Barbarella, 1968, di R. Vadim). Negli anni '70 si mette ancora più in gioco, adattando la sua fisionomia ormai matura a figure sgradevoli, viscidi impiegati di provincia (Venga a prendere il caffè... da noi, 1970, di A. Lattuada) o goliardi di mezza età che esorcizzano la paura della morte con burle atroci (Amici miei, 1975, di M. Monicelli) fino all'industriale padano protagonista di La tragedia di un uomo ridicolo (1981, di B. Bertolucci, premio come migliore attore a Cannes). Benché non manchino le esilaranti caratterizzazioni che gli conservano le simpatie del pubblico (la coppia omosessuale con M. Serrault en travesti in Il vizietto, 1978, di E. Molinaro), come pure le partecipazioni prestigiose (La terrazza, 1980, di E. Scola), in quest'ultima fase della carriera T. entra in un malinconico cono d'ombra, per cui è spesso costretto a lavorare all'estero, mentre in Italia gli toccano stanchi seguiti di successi precedenti (Matrimonio con vizietto, 1985, di G. Lautner, 1985). Ancora un film da regista (l'apologo futuribile di I viaggiatori della sera, 1979), qualche caratterizzazione azzeccata (il furbo contadino medievale di Bertodo, Bertoldino e Cacasenno, 1984, di M. Monicelli), un ruolo da protagonista di nerbo (il poliziotto stanco di I giorni del commissario Ambrosio, 1988, di S. Corbucci) non bastano a cancellare l'impressione di un grande talento negli ultimi anni non adeguatamente valorizzato dal cinema italiano. (rm)"