(Genova 1884 - Firenze 1966) scrittore italiano. Figlio di un pastore protestante, iniziò studi di teologia ma li interruppe per impiegarsi alle ferrovie. Fu collaboratore della «Voce», di «Lacerba» e di «Riviera ligure». Partecipò come ufficiale degli alpini alla prima guerra mondiale e diresse il giornale delle trincee «L’Astico»; dopo la guerra fondò «Il Nuovo contadino», un periodico destinato ai reduci delle povere famiglie di agricoltori. Emarginato dal regime fascista, si dedicò a un’intensa attività di traduttore, dal francese e dall’inglese. Con G. Boine, S. Slataper, C. Michelstaedter e G. Stuparich, J. fa parte di quel gruppo di «moralisti vociani» che nel programma letterario della rivista fiorentina portò un’ansia tutta particolare di meditazione etica e religiosa. In lui, però, tale comune tendenza appare segnata da oscure urgenze ancestrali (la rigida educazione valdese, le dolorose, inquietanti vicende familiari) che solo in un secondo momento si chiariranno in cifra di superiore condotta morale e artistica, attraverso l’incontro con lo spiritualismo cristiano di Ch. Péguy e P. Claudel. Suo primo libro fu Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi (1915), un’amara protesta contro il sistema burocratico e l’arida esistenza borghese, cui vengono contrapposti i diritti a una vita ardente, intera, spontanea. Ma più alta prova dette in Ragazzo (1919), un’opera di faticosa gestazione che, nel mettere a nudo problemi e turbamenti dell’infanzia, alterna momenti di spietata confessione a slanci lirici di fervore profetico; mentre il terzo libro, Con me e con gli alpini (1919), composto di prose e di versi, pur restando una delle più valide testimonianze sulla guerra del 1915-18, sfocia spesso in una celebrazione un po’ ingenua del sacrificio palingenetico degli «umili». I toni più decisamente biblici, sparsi in questi tre libri, troveranno più organico sviluppo nelle Poesie (raccolte postume nel 1965).La critica recente ha posto in evidenza la qualità sperimentale della scrittura di J.: il suo realismo espressionistico si nutre di elementi lessicali eterogenei, tratti dal linguaggio d’uso e da quello culto, dal gergo burocratico come dalla parlata popolare e dialettale, mai per un gusto della parola fine a se stesso, bensì per il bisogno morale di catturare l’intima essenza di oggetti, figure, moti interiori.