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Un Serafino si avvicinò volando a Isaia. Aveva in mano un carbone rovente, preso con le pinze dall’ara sacrificale. Gli toccò la bocca con quel carbone e disse: «Ecco le labbra tue ho toccato / La tua colpa è abolita / Il tuo peccato è strappato via». Allora il Signore chiese: «Chi mando? Chi va per me?». E Isaia risponde: «Eccomi / Manda me». Questa scena maestosa di vocazione accenna all’essenza della parola profetica, parola che brucia e parola di chi è stato toccato dal fuoco. Dall’ottavo secolo avanti Cristo sino a oggi, nella tradizione ebraica, poi cristiana, poi in tutta la cultura del mondo occidentale le parole di Isaia hanno agito come un potente, perenne richiamo: le sue immagini si intrecciano a tutto il nostro passato e continuano a proiettarsi sul nostro futuro. Innumerevoli occhi hanno scrutato per secoli quelle pagine della Bibbia; e innumerevoli volte quei versetti sono affiorati nella memoria.
Scrive Ceronetti: «Nella mano del profeta la parola arde come uno strumento affilato e micidiale. La parola nabitica sacrifica fino allo spreco le esistenze umane, popoli interi ammucchiati, buttati a fare carname da roghi, montagne naufragate nel sangue, ma è anche uno strumento fatato, che può trasformarsi in unguento musicale, in sonorità consolatrice, e curare meravigliosamente, in certi casi immediatamente dopo aver dato il colpo irreparabile, le ferite che produce. Nel diradarsi dell’ecatombe, il Resto, qualche scampato di predestinazione assoluta, vedranno il miracolo dello scannatore che diventa medico e Paracleto, e la fine della paura. Non è molto, ma è la condizione umana».
Guido Ceronetti ha tradotto il Libro del profeta Isaia in una lingua italiana che riesce a essere, come Massignon scriveva dell’ebraico, «lingua del timore, del sangue, del sacrificio». E il lungo commento, pieno di interpretazioni nuovissime, è un tentativo mirabile e solitario di accostare l’orecchio alla forza pulsante della parola dei profeti, questi «posseduti dalla Visione (visiva e sonora)».
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