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«In fondo tutto l'universo può essere riassunto in linee e punti. E una linea non è altro che un punto che è andato a farsi una passeggiata.»
Nella pura architettura dei Laboratori Bauhaus di Dessau, la scuola di design che provò a cambiare il mondo, Erich Kroll, un ragazzo dal passato doloroso, vive la maledizione di non avere talento nel luogo simbolo del talento. Anzi, si illude che la creatività lo possa condurre al successo e al riscatto personale, e perseguirà questo obiettivo ad ogni costo, con cinismo e ottusità, sino a rovinarsi la vita. Lo seguiremo così nella sua continua lotta per emergere, dall'apertura della scuola (1926), sino a quando Walter Gropius ne lascia la direzione (maggio 1928). Una sorta di "giro di vite" tra Maestri quasi mitologici (Kandinskij, Klee, Schlemmer) e studenti geniali, mentre sullo sfondo scorgiamo l'onda nera del nazismo e gli ultimi fuochi della Repubblica di Weimar e, infine, nell'epilogo, la guerra e le ferite di una Germania divisa. Tranne Erich tutti i personaggi sono realmente esistiti, come i ragazzi sognatori – i Bauhäusler – veri protagonisti della narrazione. Un percorso che ci permette di ricostruire fedelmente il clima nel campus, tra lezioni, scontri, amori, eccessi, in un periodo storico fondamentale per la cultura e l'arte contemporanea, che crediamo di conoscere, ma di cui in effetti sappiamo veramente poco. Un romanzo di formazione che punta a decostruire le regole base: più che migliorare, infatti, Erich peggiora, a livello umano ed emotivo in un percorso dove è difficile distinguere tra vittime e colpevoli.
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Un romanzo morale più che sull'arte, una storia un po' vera e un po' inventata che non convince. Preferisco i suoi libri sugli outsiders, che ti raccontano quello che gli altri non scrivono.
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