Con questo breve La lucina (per la nuova collana "Libellule "di Mondadori), Antonio Moresco preannuncia il grande romanzo Gli increati, che costituirà l'ultimo segmento della trilogia romanzesca iniziata con Gli esordi (1998)e proseguita con l'opera-mondo Canti del caos (versione unitaria e definitiva del 2009). Tuttavia sarebbe riduttivo ridurre questo breve romanzo, questa "piccola scatola nera" (come la definisce l'autore nella Lettera all'editore introduttiva), a un introibodel "grande romanzo", considerandolo solo come un laboratorio di temi da declinare con maggiori ambizioni e vastità di sguardo altrove. Come era già chiaro leggendo Gli incendiati (Mondadori, 2010), crudo fanta-horror nato dall'ambiente di Canti del caos e storia d'amore e di battaglia (fra i Vivi e i Morti, con una netta simpatia per i secondi, ai quali appartiene il narratore protagonista), le opere "minori" di Moresco lo sono per dimensioni, ma il loro corredo genetico è lo stesso dei grandi romanzi: gusto per una narrazione insieme analitica, materica ed essenziale, visione cosmica dell'esistente, aspirazione a una totalità immanente che possa sconfiggere la morte. Questi tratti sottolineano la consanguineità di La lucina con le precedenti opere di Moresco, ma serve ancora una precisazione per tratteggiare l'albero genealogico: è riscontrabile un'affinità stretta, segnata però da una nuova componente lunare (L una "piccola luna" della Lettera, dalla natura "intima e segreta"), notturna e sonnambulica. Le scene del libro, costruito per sequenze "montate" e inquadrature silenziose ed esatte, sono permeate di notti insonni, scricchiolii, rumori e minacce oscure, tanto da far pensare, restando nella terminologia cinematografica, proprio a un film "di tensione", laddove invece Gli incendiati squadernava una serie di macrotemi desunti originalmente dal war movie e dall'horrorefferato. E i parallelismi potrebbero proseguire senza intoppi: I frenetico fino all'autodistruzione, L lento nel suo progressivo spegnersi, I dominato dalla luce e dal fuoco, affollato di presenze umane, metropolitane e volgari, L che si sdipana nell'ombra luccicante di stelle in un borgo di montagna, popolato solo da animali e qualche sporadico villeggiante (ma sono le bestie, leopardianamente, gli interlocutori spesso più credibili, più vicini al protagonista), I lineare nel suo "bruciare" irreversibile, L in qualche modo ciclico, di una ciclicità problematica e concettuale che, dolorosamente, non riesce a negare la fragilità umana, la tensione negativa dell'essere. Spiegare cosa sottenda lo spirito "ciclico" di L equivarrebbe a banalizzare la vicenda e la sua sorprendente conclusione, che rappresenta il maggiore accrescimento conoscitivo per il lettore; e molto di questo romanzo, sia pur lento fin quasi all'immobilità, sta proprio nel "botto" della sorpresa finale, contraltare all'apertura cosmica che si impone via via agli occhi del protagonista. Ma facciamo qualche passo indietro: il protagonista che racconta e che, ricordiamo, non ha un nome ‒ scorge, nella solitudine del suo ritiro di montagna, una lucina sul crinale della montagna di fronte. La natura della traccia luminosa è, come spesso nelle descrizioni moreschiane, volutamente ambigua. Cangiante, inspiegabile, sembra un simbolo ma si rivela un vicolo cieco, inspiegato: segnale di morte, come i lumini dei cimiteri che costellano le passeggiate dell'uomo, o di perpetuazione insensata e precaria, come nel bellissimo incontro-dialogo con le lucciole? Non serve sapere. La lucina attrae il protagonista e lo spinge a rompere il suo isolamento, poiché sulla costa buia della montagna, dentro la lucina di una casa ‒ sta un bambino senza identità, triste e naufrago. Di lui, nei ripetuti incontri con il protagonista, nulla ci viene detto se non per accenni, indizi, tracce, nelle quali risiede non poco del talento di Moresco in quanto narratore; la pagina si compone per costruzioni, incontri, distanze e atti fisici, mai simbolizzati dal narratore, ma dotati di una costante "tensione" elettrica come se ogni singola scena fosse sul punto di esplodere. Il grande fascino del raccontare sta in gran parte proprio nel mantenere la tensione costante, in contrasto con la natura "esplosiva" e oscena che innervava le storie di Gli incendiati o degli stessi Canti del caos, da cui L si distanzia pure per l'abbandono dell'attitudine monologante, della proliferazione verbale fine a se stessa: qui ci sono pochi dialoghi, e tutti decisivi per lo sviluppo e lo scioglimento della vicenda, mentre chi racconta in prima persona sembra quasi un paradossale narratore "esterno" alla vicenda, secondo le procedure stranianti tipiche del primo Moresco, quello dei primi anni novanta, finalmente esordiente. In effetti, i personaggi di Clandestinità (Bollati Boringhieri, 1993) condividono il nome (si fa per dire) con l'uomo di L, nonché l'atteggiamento verso il mondo. Inoltre, si verifica anche in L una situazione consueta del primo Moresco. Un individuo isolato, separato tramite un sottilissimo strato dal mondo e, parrebbe, anche da una coscienza prettamente "umana", incontra un ente o una persona che funge da calamita, da totem inspiegabile (in Clandestinità rispettivamente la Signorina, una fossa biologica, un vicino di casa); l'individuo vi si avvicina, fascinato, lo cerca per amarlo, combatterlo, ucciderlo di volta in volta, e in questa azione decisiva trova la sua fine, il suo passaggio di stato a una nuova condizione. Ma lo scarto di L sta nella natura inedita del passaggio, diventato un avvicinamento che sfocia nella compenetrazione, una nuova esistenza cambiata di segno, una rinascita (del tutto laica e immanente, evitando però un minimalismo di stile e contenuti) che arriva a cambiare, nell'ultimo capitolo, la natura stessa della parola del narratore, oltre a renderla ancora più elementare; e in questo atto finale e misterioso, il narratore "esterno" sembra finalmente uscire dal bozzolo della propria solitudine, abbandonando le montagne per un buio vasto come un'ipotesi di infinito. Lorenzo Marchese
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