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Ma cos'è questa crisi. L'Italia, l'Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013)
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Ma cos'è questa crisi. L'Italia, l'Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013) - Marcello De Cecco - copertina
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Ma cos'è questa crisi. L'Italia, l'Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013)

Descrizione


La diagnosi è ben chiara. Il principio che continua a ispirare le ricette dominanti per uscire dalla crisi è: "prima l'austerità e poi la crescita".Ora, osserva De Cecco, "la prima l'abbiamo da tempo, ma la seconda non si vede, e se la ricetta non ci ha ancora soffocato lo dobbiamo a Obama, che questa ricetta non la applica".Ma quando è nata l'idea che per investire bisogna aver prima risparmiato? "Essa è presente già in Adam Smith, e percorre per più di un secolo l'intera storia della teoria economica. Fino a quando arriva Keynes che, con la forza della disperazione dovuta alla crisi post-bellica, afferma che, al contrario, sono gli investimenti a determinare i risparmi". Il cuore della crisi europea sta nel continuare a rimanere abbarbicati all'idea dell'austerità a tutti i costi. La battaglia che si conduce in Europa attorno a questi temi è una battaglia aperta, che coinvolge le autorità monetarie, i gruppi politici, le lobby, gli interessi della speculazione e della rendita. Tutti soggetti che si muovono in uno scenario storico complesso, difficile da penetrare.
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Dettagli

2013
31 ottobre 2013
XVI-288 p.
9788860369949

Voce della critica

 
L’interesse di una raccolta di articoli di giornale su temi di economia, anche per chi li ha già letti di volta in volta al momento della loro uscita (e in questo caso si tratta di pezzi pubblicati su un quotidiano a larga diffusione come “Repubblica” o sul suo supplemento “Affari e finanza”) sta nel fatto che averli a disposizione in ordine cronologico, lungo un arco di tempo poco meno che decennale, permette al lettore di cogliere assai bene quale sia la visione dell’autore. Qualcosa che invece facilmente sfugge quando i pezzi si leggono uno a uno al momento della loro uscita sul giornale. Si tratta di una differenza non da poco, soprattutto quando, come nel caso in questione, il filo rosso corrisponde a una visione forte e articolata delle tendenze di fondo del capitalismo globale, delle cause che hanno portato alla sua crisi nel 2007-2008, e dei suoi sviluppi futuri. In questa differenza sta, evidentemente, l’interesse e il valore aggiunto di questa loro raccolta in un volume. Non che si tratti, va detto, di una lettura agevole: gli articoli sono presentati in ordine cronologico, col titolo originario che, come spesso avviene, riflettono contingenti esigenze giornalistiche, e raramente sono pienamente indicativi del loro contenuto. Il volume inoltre non dispone di un indice analitico né di un indice dei nomi, che sarebbero stati assai utili, soprattutto il primo, nell’agevolare la lettura e la consultazione.
De Cecco definisce questa crisi come “crisi della seconda globalizzazione”, la prima globalizzazione essendo quella che precedette e finì con la grande guerra del 1914-1918. Un’evocazione e un termine di confronto assai poco tranquillizzanti, ma perfettamente coerenti, con ciò che salta agli occhi dalla raccolta. Gli avvenimenti economici cui l’autore fa riferimento coprono uno spazio geografico e temporale molto ampio, e il lettore deve essere pronto a seguire pazientemente De Cecco nei suoi riferimenti storici ad avvenimenti e vicende economiche e politiche anche molto lontani e non sempre ben conosciuti, che caratterizzarono lo sviluppo e le crisi della “prima globalizzazione”.
Il filo rosso di De Cecco si svolge lungo i seguenti punti. In primo luogo, il fatto che la crisi avrebbe potuto e dovuto essere prevista. “A conclusione di una lezione che tenni all’Università Waterloo nel maggio del 2007 ‒ scrive ‒ affermai che eravamo alla vigilia di un enorme sommovimento mondiale.” La situazione economica corrente aveva infatti molte analogie con quella degli anni che precedettero la prima guerra mondiale. Allora la sterlina era la moneta internazionale, ma la Gran Bretagna era un paese in declino. Le due superpotenze emergenti erano gli Stati Uniti e la Germania, sebbene nessuno dei due ambisse a rimpiazzare la sterlina con la propria moneta come centro del sistema monetario internazionale. Ambizione che invece nutriva la Francia, la quale dava così instabilità al sistema. Il dollaro sarebbe divenuto la moneta mondiale solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale. “Quella presente è una crisi che viene da lontano, certamente dai primi anni novanta, e che porta la firma delle autorità economiche e della grande finanza degli Stati Uniti”. La crisi è iniziata in seno alle sovrastrutture delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, che avevano conosciuto un abnorme sviluppo soprattutto negli Stati Uniti, ma anche altrove, a partire dai primi anni novanta. Da allora in tutti i paesi, soprattutto quelli del centro, il settore finanziario è divenuto il primum mobile di tutta l’economia, “dotato di energia e volontà indipendenti, e capace di sfruttare meglio degli altri settori tutte le innovazioni, specie nel campo dell’elettronica e delle comunicazioni, che si sono rese disponibili a velocità sempre maggiore”. Quando è scoppiata la crisi, dal settore finanziario si è propagata all’economia reale, che ne è stata investita “con vero furore, come si rivela dai dati della produzione e dell’occupazione”.
De Cecco non si limita però a biasimare l’abnorme sviluppo finanziario, come spesso viene fatto nella pubblicistica corrente, senza vedere le sue interrelazioni e i suoi intrecci con gli squilibri del lato cosiddetto reale dell’economia, cioè con gli squilibri della produzione, della distribuzione del reddito, della domanda, e delle sue componenti, sia private che pubbliche, quelle, cioè, che sono sotto il controllo diretto delle autorità politiche. Egli sa bene, infatti, che lo sviluppo abnorme della finanza e di tutta l’economia di carta non è semplicemente il frutto dell’ingordigia dei banchieri e dei finanzieri, e dei loro clienti, ma è strettamente intrecciato agli squilibri strutturali dell’economia reale, e si fonda su questi. E ha ben presente che senza una correzione degli squilibri reali non si possono ricondurre a normalità (qualunque cosa ciò possa significare in pratica) il ruolo e le dimensioni relative della finanza. E qui De Cecco richiama l’attenzione su alcune caratteristiche raramente citate dell’economia americana: la determinazione delle autorità politiche americane “di finanziare le proprie guerre al costo minore possibile in termini di interessi sul debito pubblico, tramite una politica monetaria estremamente espansiva, per non sopportare penose misure correttive”; la sospensione in pratica del “vincolo di bilancio”, che corrisponde “ all’illusione che il mondo sia uscito dalle tenaglie della scarsità e che ciascuno possa rischiare e sbagliare senza dover pagare per i propri errori”. Pretesa che avrebbe senso solo se fossimo già usciti dal “dilemma tra risorse scarse e desideri infiniti”; e infine i numerosi provvedimenti di liberalizzazione e deregolamentazione nel segno del neoliberismo, vera ideologia dominante a partire dagli anni ottanta sia a destra che a sinistra dello schieramento politico. Un esempio a questo proposito è l’abolizione del controllo sui tassi di remunerazione dei depositi delle banche, con la cancellazione della legge Glass-Steagall, e la sua sostituzione con i coefficienti di capitale (un provvedimento che reca la firma dell’amministrazione Clinton, e del suo ministro Robert Rubin, ex amministratore delegato di Goldman Sachs e di Citigroup), un provvedimento che di fatto ha avuto l’effetto di stimolare i banchieri a comportamenti irresponsabili. “Non è eccessivo affermare che i coefficienti obbligatori abbiano spinto le banche, proprio per risparmiare capitale, a creare tutto quel sistema finanziario ombra che si addita come grande responsabile della crisi”. Già nel 2000 Stiglitz, allontanato dalla stanza dei bottoni dell’amministrazione Clinton, aveva denunciato il pericolo, ma il timone della politica economica era stato trasferito nel frattempo nelle mani di Lawrence Summers, Rubin e Alan Greenspan, quest’ultimo presidente della Federal Reserve, convinto che “i nuovi strumenti di dispersione del rischio, che hanno consentito alle banche più grandi e sofisticate di spogliarsi di una gran parte del rischio di credito trasferendolo a istituzioni con minore indebitamento, [avessero] contribuito allo sviluppo di un sistema finanziario molto più flessibile ed efficiente, e perciò meno sensibile agli shocks, di quello che esisteva appena un quarto di secolo fa”. Queste affermazioni di Greenspan, del 2005, appartengono di diritto, afferma ironicamente De Cecco, al novero delle “ultime parole famose”.
Altri pezzi importanti della raccolta riguardano i problemi economici dell’Europa, dell’unione monetaria, dell’ euro, e quelli dell’Italia, su cui non c’è qui lo spazio per fermarsi, e che sono trattati con lo stesso acuto e ironico spirito critico. Per concludere occorre invece tornare a quelle che secondo De Cecco sono le possibili prospettive economiche della seconda globalizzazione (si vedano a questo proposito le considerazioni finali dell’Introduzione). “Di fronte al perdurare della crisi più grave degli ultimi centoventi anni, in mancanza di soluzioni innovative (…) la tendenza più forte sembra essere quella di ricorrere a soluzioni che, a lungo screditate, tornano a un tratto di moda e suggeriscono misure affrettate e pesanti perché prese in ritardo (…). Nazionalismo, protezionismo, regolamentazione dei mercati sono i nomi di queste soluzioni. La sgradevole sensazione di trovarsi in un periodo di profondo riflusso verso il nazionalismo e il razzismo è difficile da evitare, in Europa così come altrove”. Un esempio per l’autore è ciò che è avvenuto nei paesi dell’Europa orientale dopo la loro liberazione dai regimi sovietici. Di qui la sua cupa valutazione conclusiva. “Se dobbiamo basarci sulle esperienze degli ultimi cento anni, le previsioni sono necessariamente nefaste. Stiamo tornando a tempi di ferro, come quelli che i miei coetanei hanno vissuto nella loro infanzia”. Come semplici lettori, c’è solo da sperare che De Cecco abbia torto, e toccare ferro contro l’avvento dei “tempi di ferro”.
 
Gian Luigi Vaccarino

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