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La Cina ha raggiunto risultati economici straordinari, grazie a un tasso di sviluppo che negli anni novanta è stato mediamente superiore all'8 per cento. Già oggi è la quarta potenza industriale (l'Italia è stata sorpassata un paio d'anni fa), e le previsioni sono che - a costanza di sviluppo - tra una decina d'anni supererà gli Stati Uniti. Per questo, peccano di miopia strategica le analisi che oggi vedono l'attacco di Bush all'Iraq come una "guerra preventiva" contro Saddam Hussein, mentre nel disegno globale del Pnac - il Plan for the New American Century - di Wolfowitz, Cheney, Rumsfeld e di tutta la società dei neocon l'assalto a Baghdad è stato in realtà la guerra preventiva contro la Cina. Pechino è già oggi uno dei primi importatori di petrolio, e il mantenimento del tasso di sviluppo impone alle sue industrie un aumento progressivo e costante del ritmo di questa importazione; controllare con i marine - o comunque con un governo devoto - il rubinetto delle risorse energetiche del più importante bacino di riserve petrolifere significa controllare e condizionare anche il tasso di sviluppo della Cina.
Naturalmente ci sono variabili infinite che possono incidere su questo scenario, dal rischio d'un surriscaldamento dell'economia cinese (con la conseguente necessità d'imporre allo sviluppo produttivo un drastico rallentamento), fino ai pericoli della destabilizzazione politica che le tensioni sociali potrebbero attivare in un territorio immenso dove oggi convivono due mondi, e due mercati, spaccati da una frattura diacronica di almeno un paio di secoli.
In una cornice di così aspre contraddizioni, l'impianto del modello di Amy Chua trova un terreno d'intervento di grande fascinazione, perché la convivenza d'una società dello sviluppo con una società primitiva, e la convivenza delle prime, minoritarie, forme di dibattito democratico con la sopravvivenza d'un controllo politico autoritario, offrono una sorta di laboratorio alla verifica delle formule ideologiche che pretendono di governare "l'età dell'odio".
Tutto questo, comunque, è lo sfondo nel quale si colloca il lavoro di Sisci, direttore dell'Istituto italiano di cultura a Pechino. Sisci - come spiega anche il sottotitolo del suo lavoro - ha scelto il profilo basso, del cronista che racconta dall'interno di un comune vissuto quotidiano come stia mutando quasi geneticamente una società che sembrava immobile nel tempo. La politica, i soldi, la famiglia, il sesso, il cibo, sono raccontati come esperienze dirette, come cronaca d'una registrazione fatta a matita, puntuale, accurata, minuziosa, sostanzialmente poco interessata al giudizio politico. Soltanto nei "ringraziamenti" traspare una chiave inquietante: "Con molti amici ho debiti (di aiuto alla comprensione della realtà cinese), ma per il bene loro forse è meglio non nominarli".
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