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Un libro degli anni sessanta scritto negli anni ottanta e letto negli anni duemila e spicci. Lo stile è neorealista, con le scenette familiari, le tensioni, le piccole miserie di un Bianciardi e persino del Pasolini romanesco. Ma Pennacchi è, invece, un brav'uomo e buon padre di famiglia, forse non esattamente un grandissimo scrittore ma umanamente ricco e appassionato. Per questo Mammut si legge volentieri, nonostante qualche noiosa ripetizione e qualche commozione di troppo. E per tenere leggero lo stile, alla fine lui stesso e i suoi compagni sembrano una compagnia di illusi che credono alle favole che raccontano a se stessi. Il pregio maggiore del libro è d'altra parte proprio questo disincanto, questa demitizzazione della classe operaia, estinta all'insaputa di chi credeva di appartenervi.
Autobiografico: le lotte in fabbrica degli anni 70-80 e la sconfitta degli operai, sino al disimpegno (o a un impegno diverso, comunque svuotato della relazione solidale di classe). E' incredibile come uno stesso autore, a partire da una narrazione confusa, a tratti vivida ma a tratti semplicemente imbarazzante, di questa prima prova letteraria, arrivi, mantenendo lo stesso stile narrativo, alle vette de Il Fasciocomunista e di Canale Mussolini.
Un romanzo divertente che apre un piccolo spaccato sulle lotte operaie in una zona decisamente periferica (Latina). A parte questo, si nota chiaramente (e lo scrittore lo ammette candidamente) uno stile acerbo, un intreccio slegato, discontinuo e in certi casi banalotto. E' stato (ri)pubblicato da mondadori solo dopo il grande successo degli altri romanzi. Resta una piccola rivincita per l'autore, che se lo vide rifiutare una quarantina di volte.
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