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Anno edizione: 2004
Anno edizione: 2015
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Lettura gradevole, prosa gentile, trama discretamente costruita. Non un libro indimenticabile, ma valido.
Quello di Daniele Longo è un libro romantico, delicato; una storia che ci narra di un mondo che finisce senza lasciare eredi dietro di sè. È il mondo dei contrabbandieri, dei “passatori”, che hanno popolato la storia delle popolazioni di confine sulle Alpi. Il procedere della sua narrazione è quello dei montanari che salgono i sentieri che attraversano le valli e questa apparente lentezza ci permette di sentirci nella storia. I protagonisti sono due: Cesare, il Francese, con tanti anni di esperienza sulle montagne ma che aveva abbandonato questa attività, e Sergio, un giovane con la voglia di andare via, un sogno che viene rappresentato dal bisogno di conoscere la madre, di cui sa poco, e che lavora a Marsiglia. Il vecchio e il nuovo nel momento di passaggio, della trasformazione. Il pretesto narrativo è dato dalla scoperta del corpo di un uomo assassinato. Un uomo che si rivelerà come Fausto, uno dei nuovi passatori, non di quelli romantici del passato, ma uno che non si fa scrupolo di collaborare con la nuova malavita. Il paese accoglie questa notizia seppellendola nel silenzio. Solo i due protagonisti vengono trascinati verso il compimento del loro destino dal rinvenimento di quel cadavere. A loro si unisce la commissaria di polizia che cerca di rompere quell’omertà e di stabilire un rapporto con Cesare, ma il suo è e resta un corpo estraneo che non potrà cambiare il compiersi degli eventi.
Di x se' qs libro mi ha conquistato e l'ho letto tutto d'un fiato , xo' mi ha lasciato un senso di vuoto , di mancanza di parti importanti che il lettore non puo' solo immaginare . Troppo scarna e troppo finta la storia tra Cesare e l'ispettore , ma veramente l'autore pensa che ql sia amore ??? Giudizio medio , viste le basi poteva fare di piu' .D.
Recensioni
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Luogo simbolico per eccellenza, il confine racchiude in sé il doppio movimento dell'apertura e della chiusura, la tensione che porta ad attraversarlo – palesemente, nascostamente – o piuttosto a erigerlo come protezione per cose e persone. Lungo il filo conduttore di questa dialettica fra interno ed esterno, in cui sembra prevalere l'istinto al riserbo e alla difesa, ma che è percorsa da un respiro lirico che ci costringe a guardare più in là, si snoda il secondo romanzo di Davide Longo, che dopo Un mattino a Irgalem (Premio Grinzane Cavour 2001 per il migliore esordio) si misura con il fascino misterioso di una terra a lui cara, la val Varaita.
Territorio, appunto, di confine, che si incunea fra il Piemonte e la Francia, la val Varaita offre uno sfondo ideale (ma non idealizzato, perché il romanzo è permeato da un realismo fedele ed essenziale che concede all'elegia uno spazio minimo) per una vicenda che ha come protagonisti i passeur, personaggi a metà strada tra i contrabbandieri e gli esploratori, che per lungo tempo hanno sfidato la durezza del paesaggio e la legalità affinché cose – sale, tabacco, acciughe – e uomini potessero passare non visti la frontiera fra due paesi. Longo, che per frequentazione personale conosce bene e ama questa terra "scabra ed essenziale", per rubare le parole a un poeta che sicuramente ne avrebbe apprezzato le doti di narratore, importa da altri luoghi, anche vicini, la tradizione di questi contrabbandieri rudi ma fedeli a un codice d'onore, secondo cui non si lascia a metà nessuna impresa: il coraggio, come si legge nella citazione di McCarthy posta in epigrafe al libro, "è una forma di costanza". Così, prima fra tutti viene alla mente la vicina Liguria di cui scrive, ad esempio, Biamonti (autore di cui ci si ricorda, scioccamente, troppo poco), il cui nome è già stato messo più volte, e appropriatamente, in relazione con quello di Davide Longo, con il quale condivide l'attaccamento viscerale alla propria terra – stessa cosa potrebbe dirsi anche per il McCarthy prima ricordato – e la capacità di evocare situazioni e sentimenti con un linguaggio dosato e distillato. Pieno di vento e profumi e del giallo delle mimose quello biamontiano, più monocromatico e roccioso quello del giovane scrittore di Carmagnola, che dà voce al silenzio di un mondo poco propenso a esibire sentimenti e paure.
L'occasione che mette in moto la narrazione è un misterioso delitto, che scuote gli animi e la curiosità degli abitanti di un piccolo paese frantumato in un mucchietto di borgate. Cesare, passeur a riposo, un trascorso straniero che gli vale il soprannome di "Francese", trova una notte il cadavere di Fausto, poco più giovane di lui, suo figlioccio ed erede nel mestiere di "passatore". Fra i due un antico sodalizio si era trasformato in ostentata indifferenza, da quando la vittima aveva accettato di trafficare in sostanze stupefacenti, una merce di cui Cesare non accetta di sentire neppure il nome. Un cammino comune, poi la separazione, che porta il più anziano a rinchiudersi in un'esistenza scandita dal consumarsi delle Gitanes, che Cesare fuma continuamente, in omaggio alla sua gioventù marsigliese, dagli sguardi languidi di Micòl, lupa silenziosa e vigile, e dal ricordo lancinante di Adele, la moglie morta "troppo presto".
Ora l'assassinio di Fausto (in un romanzo dove padri e figli vivono rapporti conflittuali e durissimi, valori e affetti si tramandano in modo più trasversale, fra amici, ma anche nel rapporto "adottivo", per così dire, tra padrino e figlioccio) rimette tutto in questione e in movimento: la tragica circostanza costringe Cesare a ripensare al passato e, complice l'intervento del giovane Sergio, cui Fausto in un certo senso stava insegnando il mestiere, il ripensamento si trasforma in azione e in recupero (una volta sola, e poi mai più) dell'antico ruolo di "attraversatore di spazi".
Tornando a essere agente e non più solo pensoso spettatore della vita, Cesare segna il proprio destino insieme a quello di chi gli sta accanto: Sergio, che attraversa il confine fra Italia e Francia liberandosi di un padre-padrone anaffettivo e rozzo, i clandestini, abbandonati involontariamente da Fausto, che tornano a sperare in un futuro possibile, e ancora Sonia, donna coraggiosa e rispettosa del dolore altrui. Un movimento che per alcuni significa apertura, fuga, speranza, per altri chiusura e immobilità e abbandono: un movimento che costringe Cesare a varcare – con una consapevolezza che è solo apparentemente disincantata – la soglia fatale tra la vita e la morte.
È un piacere leggere il libro di Davide Longo. Lascia nei pensieri un sapore che deriva, nonostante la crudezza degli argomenti e di certe scene, dall'equilibrio di una lingua in cui l'autore mescola sapientemente francese, italiano e patois, dalla ritrosia e dalla dolcezza di personaggi che con pochi tratti si imprimono nella memoria, e, soprattutto, da una scrittura che, come i passeur, arriva da lontano ed è capace di attraversare confini, unire e separare mondi, resuscitare gesti e cose piccole, spalancare una finestra per far passare un vento insieme antico e nuovo.
Rossella Bo
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