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Contro le forze armate del nulla che avanzano di metro in metro lungo il fronte della bruttezza, dell'ovvietà blaterante, del lessico più vuoto, ecco una delizia che può solo allargare il sorriso e ridare quiete e senso alle esigenze del dentro. Non lo conosce nessuno - mi verrebbe da aggiungere per fortuna - ma basta da solo a fronteggiare le guarnigioni di cui sopra, tanto lucente è il suo verbo e la vastità delle sue invenzioni. A certe altezze la malinconia diventa felicità, questa è un legge non sconfessabile. Ebbene, il lavoro di Polgar è proprio questo: illustrare scenette, quadri sociali, piccole realtà d'interno dove l'affumicata noia borghese prenda qualche pistolettata d'acqua che finalmente la irrida, la sbeffeggi, la spogli. I suoi eroi sono tantissimi: furbi, simulatori, burattini, eretici, scemi, confusionari, sprovveduti, visionari. Un affresco umano insaziabile e fertilissimo che basta aspettare al varco: si scoprirà nelle sue stupidaggini - o nelle sue tristezze - presto o tardi. Ma anche nelle sue nascoste tenerezze, rare e delicate talvolta come cartoline da un altro mondo, più tenue e nostalgico forse, più vecchio e perduto, ma almeno sano e intatto nella sua stoffa interiore. La Vienna decadente partorì questo genio delle lettere, del pensiero, come un figlio troppo eccentrico per poter essere accolto da favori e braccia aperte. Ma in molti lo amarono, da Kraus a Benjamin, e spesso basta un soffio di stima raro a bilanciare piatti e piatti contrari di dabbenaggine suprema. O meglio, basta il perdono della poesia, dote santa. A ridurre in polvere una mondanità ridicola, un potere dolosamente sordo, nel latte di una parola fidata, alta, vera. Dunque inchiostro ustorio e nient'altro il suo nella frenastenia diffusa che non lesina slanci di talento. Per carità! Stendetemi per terra e che una carro passi sul mio corpo. Ma se lo guida Polgar sarà bellissimo sorridere sotto quel peso. Non si può perdere accanto a uomini così.
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