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Anno edizione: 2004
Anno edizione: 2018
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Alberto Arbasino
MARESCIALLE E LIBERTINI
pp. 479, € 25,
Adelphi, Milano 2004
La vastissima ricognizione sul teatro musicale del Novecento che Arbasino compie nel suo ultimo libro prende spunto da contesti rappresentativi molto precisi, da occasioni e viaggi di uno scrittore che, a partire dagli anni cinquanta, non ha voluto negarsi nulla di quanto gli offriva una scena internazionale eccezionalmente ricca e ancora attraversata da accese discussioni teoriche e da paradigmatiche scelte di campo. La riflessione procede immancabilmente dalla frequentazione dei luoghi e dalla messa in luce di quelle memorabili esperienze drammaturgiche che nella seconda metà del secolo hanno contribuito a ridefinire le condizioni stesse di possibilità del teatro musicale contemporaneo. Abbiamo quindi una storia degli effetti di carattere autobiografico e generazionale, ritmata da predilezioni ed esclusioni, da reminiscenze e rimozioni, ma sempre anche caratterizzata da un potenziale conoscitivo evidente a chiunque si avventuri nell'impressionante e caleidoscopico repertorio di citazioni e riferimenti incrociati con i quali l'autore avvicina il proprio oggetto.
L'orizzonte preso in esame include cinque compositori, cui corrispondono altrettanti capitoli del libro: Stravinskij, Prokofiev, Schönberg, Strauss e Šostakovič. Per ciascuno di essi vengono messi in primo piano uno o due lavori teatrali, a partire dai quali, con un procedimento che si direbbe quasi monadologico, viene svolta tutta la trama delle implicazioni destinata ad ampliare, per cerchi concentrici, il raggio dell'interpretazione. Sono sempre scenari reali quelli che si aprono al lettore: per fare solo qualche esempio, la storica prima veneziana del Rake's Progress (1951), le rappresentazioni italiane dell'Angelo di fuoco (1955) e di Guerra e pace (1964), il Moses und Aron diretto da Scherchen alla Städtische Oper di Berlino (1959), il Rosenkavalier di Karajan alla Scala (1952). Arbasino riesce ogni volta a ricostruire il quadro delle esperienze letterarie e artistiche, degli incontri personali e degli scontri ideologici che facevano da sfondo agli eventi scenici: l'attesa dei commenti della critica in occasione di una Biennale musica, le parole d'ordine dominanti, le letture condivise, e allora ritenute ovvie, con le quali ci si accostava all'uno o all'altro autore.
Lettore onnivoro, Arbasino è maestro nell'arte di citare, con e senza le virgolette, e moltiplica la sua scrittura in un gioco di specchi potenzialmente infinito, ironico, ricco di humour, dove i meccanismi associativi non conoscono confini precostituiti: teatro, cinema, letteratura, arti, politica, storia, filosofia. Da tutti questi campi si generano sequenze di immagini per le quali non sarebbe impropria la formula romantica della "genialità frammentaria". In qualche misura, il libro è una sorta di enciclopedia asistematica, una mappa necessariamente incompleta, ma aperta a infinite integrazioni, per orientarsi negli orizzonti postmoderni del teatro in musica. Si sfoglino, per averne un'idea, le quasi trenta pagine dell'indice dei nomi, dove si ritroveranno ampiamente rappresentati anche autori ai quali il volume non dedica uno sviluppo specifico.
Certo, se la forma narrativa nega se stessa e sfocia nella riflessione di carattere saggistico, si tratta pur sempre di un modo espositivo che non si sente vincolato ad alcuna struttura teoretica e conserva il privilegio di evocare i propri nessi senza approfondirli in modo puntuale. Operazioni linguistiche quali accostamenti di lemmi, assonanze e catene di allitterazioni sono spesso soltanto funzionali alla creazione di agglomerati verbali senza una specifica rilevanza semantica, come nelle sequenze del tipo: "Dafni e Diane e Danai e Didoni e Dionisi e Didimi e Dioscuri". A tutti i livelli di questa scrittura si ripropone la memoria involontaria. Quale metodo associativo, l'autore la pone alla base del proprio lavoro di scavo, così che la sua riflessione sulle esperienze di cinque decenni risulta continuamente innervata dal sopraggiungere di segnali e immagini non assimilabili al contesto di partenza. Ma anche l'impatto originario delle interpretazioni sceniche e musicali sullo spettatore "giovane" fa pensare alle madeleines alle quali, di fronte al "nuovo", ci si vedeva naturalmente ricondotti in quegli anni cinquanta e sessanta. Anche allora la chiave per comprendere, dice Arbasino, era la contiguità fra livelli diversi di esperienza, fra i modelli "alti" cui ci si avvicinava nelle sedi istituzionali e la cultura popolare delle canzoni e delle riviste, del cinema e della moda.
Ma tutta questa professione di distanza, questa predilezione per i temi camp, questo annichilimento sistematico dell'oggetto sotto il segno della scepsi, non finiranno per allinearsi alle tendenze più rassicuranti di una contemporaneità che il nostro scrittore non cessa per altri versi di mostrare nella sua accecante banalità? A questo rischio non si sottrae, ad esempio, la svalutazione, nel frattempo divenuta abituale, dell'opera di Schönberg quale via senza uscita per la musica contemporanea. Benché motivato da legittime inclinazioni del gusto, il giudizio non si colloca all'altezza della qualità compositiva di una partitura come il Moses und Aron e appare in larga misura dettato dall'esigenza di reagire a quel processo di ideologizzazione, suggerito da letture adorniane e manniane, alla luce del quale in anni ormai lontani ci si era accostati alla musica del compositore viennese.
Mi sembra che sul piano estetico-interpretativo l'autore offra invece gli spunti più convincenti quando si volge a quelle opere nelle quali ritrova in qualche modo un'intenzione riflessiva e una presa di distanza analoghe a quelle da lui predilette in sede critica. È ciò che avviene nel confronto con il Rake di Stravinskij, o con le creazioni di Hoffmansthal e Strauss. Riscattata da ogni sospetto di anacronismo e collocata piuttosto sullo sfondo psicoanalitico e crepuscolare della Vienna di inizio secolo, la collaborazione fra il poeta e il musicista rivela oggi una straordinaria attualità nel confronto con le più innovative linee di tendenza del teatro novecentesco.
Alberto Arbasino
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