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Il libro è scritto a quattro mani. Lei, Maria, ci mette la storia, raccontata a modo suo. Lui, Miguel, ci mette i sottotitoli e gli sguardi della gente. Un padre parla a noi come è solito comunicare con la figlia: con disegni che catturano istanti, che raffigurano (e trasfigurano) idee, sempre inusuali, sempre meritevoli di essere tradotte nel linguaggio disarticolato della sorpresa, del dispetto, di tutte le emozioni con cui una ragazzina un po’ speciale sottolinea le scene del mondo. È lei a ricordarci che la vita è fatta di situazioni, che c’è sempre qualcosa degno di nota, anche nei fenomeni apparentemente futili e monotoni come una cascata di granelli di sabbia. “Autismo” è uno sterile termine tecnico per indicare l’inflessibile determinazione a passare l’evidenziatore sui dettagli a cui nessuno bada, e che d’un tratto diventano polemicamente importanti. È il gusto di far urlare le cose, di cogliere la vita per suoni amplificati, ai quali bisogna rispondere come un’eco, con la stessa sfacciata intensità. È una forma estrema di sincerità e ribellione, che il tratto di Miguel Gallardo, duro e spigoloso come la prospettiva degli adulti, ma teneramente espressivo come certe stilizzazioni infantili, converte in un una cronaca illustrata dallo sviluppo multiforme, in cui testo e immagini interagiscono in maniera nitida e ordinata, sia pur secondo un’assoluta libertà compositiva. Le pagine di questa graphic novel sono gli episodi di un artistico gioco con i tasselli del ricordo, sono fogli di un diario in cui la memoria ha impresso le sue impronte più vive: le tracce delle fantasie più potenti, quelle che coinvolgono tutti i sensi, perché prendono direttamente spunto dalla realtà. Una realtà che non è stata mai così concreta come da quando Maria ha iniziato a mostrarcela a dito, per quanto è strana, a volte magnifica, a volte orribile, e mai, ma proprio mai, banale.
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