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2013
1 agosto 2013
9788884196453

Voce della critica

 
L’ultimo libro di Blotto è una silloge tratta da quell’immenso patrimonio letterario che è la sua poesia edita e inedita. Esso pesca in sessantuno anni di poesia (1951-2012) e si colloca spazialmente in un’area circoscritta del Piemonte occidentale, percorso e raccontato in quel corso di tempo da quell’inesausto camminatore solitario che è stato e continua a essere l’autore.
I libri di Blotto si sono succeduti per lunghi anni nell’indifferenza generale; tranne qualche cauta e prudenziale notazione, il silenzio è stata la risposta prevalente ai molti libri pubblicati, da Schwarz, Rebellato, l’Angolo Manzoni o altri piccoli editori. Poi Blotto ha cominciato a suscitare curiosità e interesse in due critici particolarmente fini e attenti, Roberto Rossi Precerutti prima e Stefano Agosti poi, e a trovare l’attenzione di altri studiosi e l’ascolto in un numero più consistente di lettori. C’é stato infine, nel 2009, presso l’università di Torino, un convegno dedicato alla sua poesia, e gli interventi sono stati raccolti in un volume, Il clamoroso non incominciar neppure. Atti della Giornata di studio in onore di Augusto Blotto (Edizioni dell’Orso, 2010), che costituisce un buon apporto propedeutico alla lettura della sua opera.
 In questi anni altri suoi volumi sono apparsi, con una cadenza regolare, e I mattini partivi, titolo, come ebbe scrivere Agosti, ”di raffinata elusività ed evasività”, è il più recente. Si può dire quindi che il silenzio che lo circondava, che ha più di una spiegazione, è stato finalmente rotto.
Vi sono vari modo di accostarsi a questa scrittura debordante, solitaria ed estrema, a questo flusso di una corporeità insieme compatta e frammentaria, dove sintassi e lessico consueto vengono stravolti in un disegno, grandioso e strenuo, volto a cogliere il reale e, forse direi meglio, la parola, oltre e prima del suo manifestarsi e diventare regola, ordine del mondo. Il primo di questi modi è quello di aderire a questo fluire, lasciandosi trasportare tra folgorazioni e contaminazioni di senso, tra illuminazioni e oscurità impenetrabili, che sono per altro proprie della poesia, che è un linguaggio ben più ardito ed esplosivo della prosa, nel suo accostare, intrecciare e opporre parole che normalmente non comunicano tra loro, facendo nascere nuovi circuiti di senso e nell’usare tutti gli accorgimenti retorici che la prosa invece utilizza, di solito, con ben maggior cautela. In questo caso il lettore avanza in una foresta di segni, in una bulimia di significanti, in cui si perde e si ritrova, comprende in modo intuitivo o subliminare, risale per pochi versi in un lessico e in una sintassi consueta per immergersi nuovamente in questo brulicare grandioso di percezioni, di arricchimento e spostamento di sensi, di dialoghi impensati della parola.
L’altro modo, che poi si divide in tanti rami e formalità di approcci e di esiti, è quello del critico di professione, che si propone di districare questa complessa matassa cercando di coglierne le strutture profonde, rendendo esplicito quello che è oscuro e rintracciando gli archetipi e modelli di mondo dell’autore.
Ci aiuta a questo fine Giovanni Tesio con la postfazione a I mattini partivi, là dove individua un percorso esemplare nella poesia di Blotto. Egli osserva che fin dalla prima poesia, che dà nome al libro e ne è l’inizio (“I mattini partivi quando ombra queta /dalle gronde arrossate immobilmente /ascoltava madrepora che andava”) Blotto, allora diciasettenne, appare interamente immerso in questo suo chiamare altrimenti il mondo e nell’uso di quella “policromia linguistica” che permeerà i suoi sessantaquattro anni di poesia. In questa sua visione, piuttosto che vedere le cose, Blotto è teso a risvegliare dal suo sonno la lingua, conducendola attraverso a “un lucido e razionale delirio inventivo”, dove il lessico, più che la sintassi, è l’officina in cui lavora, in un’operazione, dominata da neologismi, dalla costante sostantivazione di aggettivi, nomi, avverbi, da concretezze astrattizzate, da nomi che si superlativizzano, in una operazione che è creazione di cosmo e sfida al destino. Altri (Gilberto Isella) vede nella poesia di Blotto un radicale sconvolgimento dei codici dell’enunciare e del rappresentare, dove l’esuberanza di neolinguismi e neoformazioni non sono un esercizio virtuosistico, bensì “uno strumento finalizzato a catturare l’essenza dei luoghi visti nel corso di un interminabile viaggio di ricognizione” ricomposto “nell’inimitabile lente dell’io”. Quella di Blotto è dunque una ipervisione del mondo, una panvisione totalizzante fondata sull’assioma dichiarato che la poesia “è conoscenza del tutto”. E questa conflagrazione del pensiero poetico, questo superare i limiti dell’ordine simbolico, questa massima tensione espressiva porta alle sue estreme conseguenze ciò che era presente in Campana, Celan, Zanzotto e Rimbaud. Ma è da qui, dirà Agosti, che bisogna partire per capire Blotto. Il suo “folle volo” comincia là dove Rimbaud si era taciuto, “perché prefigurava lo sconvolgimento delle strutture non solo linguistiche ma addirittura concettuali e cognitive”. Blotto inizia di qui, spinto da una pulsione “d’ordine fisico-concettuale, quasi da ritmo bio-psichico percepito dal Soggetto“ non più attraverso le figure della realtà, ma attraverso “il conglomerato plurimo, stratificato, mobile e moltiplicato del Reale: quello stesso che non è della biografia ma della vita, non del fatto ma dell’Evento”. Ciò che persegue Blotto è dunque il reale nella sua nudità anticoncettuale e antidiscorsiva, senza una direzione precisa e con “una segmentazione incessante di nuclei di senso. E tutto ciò produce, aggiungo io, l’accusa di illeggibilità e della presenza nella sua poesia di una “cappa solipsistica e invasiva”, che “lascia pochi spazi ermeneutici” (Giorgio Luzzi).
A essa, in questo spazio esiguo, si potrebbe opporre, oltre ai giudizi di Tesio, Isella e Agosti, ciò che scriveva Montale: “La sua sfiducia nella parola è tanta che si risolve in una felice commistione lessicale. A lui tutto serve: le parole rare e quelle dell’uso e del disuso; l’intarsio della citazione erudita e il perpetuo ribollimento del calderone delle streghe…È una poesia coltissima la sua, un vero tuffo in quella pre-espressione che precede la parola articolata, e che poi si accontenta di parole che si raggruppano per sole affinità foniche, di balbettamenti, interiezioni”. E il poeta a cui Montale si riferiva era Zanzotto.
 
Emilio Jona

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