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Mazzarrona - Veronica Tomassini - ebook
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Mazzarrona
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Descrizione


È una storia d’amore di ragazzi affamati di vita, rischiando ogni giorno di farsela scivolare dalle vene e sfidarla di continuo. Siamo in una periferia siciliana terribile come tante, come il quartiere Zen di Palermo o le Vele a Napoli. Mazzarrona non è solo indicazione del quartiere in cui si muovono i personaggi: rappresenta la durezza della realtà, gli adulti violenti, i sogni che continuano a crescere pure nel degrado e la forza disarmante degli adolescenti, vivissima e pura. La voce della protagonista appartiene a una ragazza che si muove tra la scuola, le compagne, il ballo del liceo, il suo amore Massimo che morirà d’overdose mentre lei avrebbe voluto salvarlo, crocerossina fallita, in un tempo delle mele macchiato di nero. Le piste alle tre del pomeriggio, la scuola e le ragazze, le spade, le baracche. Il ballo inaspettato. Massimo mi ami? L’attesa di parole, parole troppo lunghe, il sicomoro a Mazzarrona. La divisa delle case, quella vita un po’ più vera. L’eroina che la accende e si consuma. Quando mi amerai? Romina è donna vera a Mazzarrona, ma ha pochi anni come Ilaria, l’amica della scuola. Tra loro due c’è lei, la voce del romanzo: Buzzati e Pratolini come sogni nel degrado e rivolta nella scuola, dove il professore che imbastisce questo corpo adolescente vale molto, perché sa dedicarsi al di là dell’offerta formativa. Mazzarrona è la sua assenza anni Novanta, e personaggi incandescenti: supernove sempiterne. La vita che persiste nella morte reiterata.
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Dettagli

Testo in italiano
Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
180 p.
Reflowable
9788833860367

Valutazioni e recensioni

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Mugghia
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Il libro di Veronica Tomassini mi fa compagnia ormai da qualche settimana. Non perché sia lungo o difficile da leggere. Al contrario. È un libro di meno di duecento pagine che potrebbe essere letto tutto d’un fiato, in apnea. Per poi riprendere respiro e immergersi di nuovo. Per scoprire nuovi anfratti, perdersi all’interno dei gorghi narrativi di cui il romanzo è disseminato. La narrazione, infatti, non avviene secondo un tempo lineare ma segue un ritmo vorticoso, disegnato da una serie di cerchi più piccoli all’interno di una grande circonferenza che inizia e finisce alle 10.45, tra sentieri di borragine e spuntoni di cardi. Questi cerchi sono abitati da personaggi o da motivi che trascinano il lettore fino a toccare il fondo per poi risalire a galla e quindi tornare giù, in un movimento altalenante, a tratti estenuante a tratti catartico, tra la condanna e la salvezza. La voce narrante è di un’adolescente ma protagonista del libro è il quartiere di Mazzarrona, una periferia squallida e degradata che guarda a un mare inutile e lontano, popolata da vampiri e fantasmi allegorici. È un libro che parla soprattutto di assenze. Assenza di un amore, cercato, inseguito, in bilico, forse trovato nelle baracche con i tetti di amianto anche se per poco o troppo tardi in un incastro di combinazioni sbagliate. Assenza di una giovinezza, negata, costipata, solitaria, tradita, gradualmente oscurata dalla gravosità e dalla pesantezza. Assenza da se stessi della voce narrante, che si sente estranea, distaccata, ibrida, sempre dalla parte sbagliata, in continua tensione tra la giustezza proletaria e la rispettabilità borghese, tra l’osservazione e l’azione, nel tentativo di salvare gli altri per salvare se stessa. E poi l’assenza di Massimo che riassume tutte le altre. Per completare il quadro ci sono pure l’eroina, l’AIDS, i SERT, Christiane F, la musica di Morrisey, i libri di Buzzati, Pratolini, Orwell, Moravia e Miller. Da leggere

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mugghia
Recensioni: 5/5

Il libro di Veronica Tomassini è un romanzo ricco di gorghi narrativi. La narrazione, infatti, non avviene secondo un tempo lineare ma segue un ritmo vorticoso, disegnato da una serie di cerchi più piccoli all’interno di una grande circonferenza che inizia e finisce alle 10.45, tra sentieri di borragine e spuntoni di cardi. Questi cerchi sono abitati da personaggi o da motivi che trascinano il lettore fino a toccare il fondo per poi risalire a galla e quindi tornare giù, in un movimento altalenante, a tratti estenuante a tratti catartico, tra la condanna e la salvezza. La voce narrante è di un’adolescente ma protagonista del libro è il quartiere di Mazzarrona, una periferia squallida e degradata che guarda a un mare inutile e lontano, popolata da vampiri e fantasmi allegorici. È un libro che parla soprattutto di assenze. Assenza di un amore, cercato, inseguito, in bilico, forse trovato nelle baracche con i tetti di amianto anche se per poco o troppo tardi in un incastro di combinazioni sbagliate. Assenza di una giovinezza, negata, costipata, solitaria, tradita, gradualmente oscurata dalla gravosità e dalla pesantezza. Assenza da se stessi della voce narrante, che si sente estranea, distaccata, ibrida, sempre dalla parte sbagliata, in continua tensione tra la giustezza proletaria e la rispettabilità borghese, tra l’osservazione e l’azione, nel tentativo di salvare gli altri per salvare se stessa. E poi l’assenza di Massimo che riassume tutte le altre. Per completare il quadro ci sono pure l’eroina, l’AIDS, i SERT, Christiane F, la musica di Morrisey, i libri di Buzzati, Pratolini, Orwell, Moravia e Miller, ma qui mi fermo perché non voglio raccontare tutto il romanzo, che merita di essere letto per la sua potenza e lo stile impeccabile.

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Recensioni

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Voce della critica

Lo stile è tutto. È l’assunto su cui si basa uno dei miei romanzi preferiti, Please Kill Me di Gillian McCain e Legs McNeil, un racconto del fenomeno punk ad ampio raggio costruito con uno strabiliante collage di citazioni: l’unica vera ricerca dell’essere umano, o quanto meno dell’artista, è la ricerca dello stile, del raggiungimento di un’espressione estetica a tutto tondo, totalmente rivelatrice. Questo assunto mi pare che alberghi, radicale e scintillante, in Mazzarrona (180 pagine, 16 euro) di Veronica Tomassini, pubblicato dalla casa editrice Miraggi: un manoscritto così votato allo stile da renderlo la linea principale dello sviluppo narrativo.

«Odiavo la mia città. La sua gente. Era così, comin­ciai allora, coltivando la mia spaventosa solitudine. Peri­colosa solitudine, sguarnita di sentimento, accecata dalla luce dei giorni di Mazzarrona, luce senza gaudio, violenta e in grado di trascinare i timidi tentativi di rivalsa verso il ceppo e il precipizio, similmente a condannati a morte. Oggi, a distanza di anni, continuo a fremere, a tremare la notte, quando rincontro tutti gli assenti».

Mazzarrona è una raccolta di memorie, i ricordi di un’adolescente nei tardi anni Ottanta divisa tra il noioso e volgare contesto sociale di appartenenza (e che altro è la volgarità, se non assenza di stile), e il degrado infernale di Mazzarrona, rione della periferia siracusana fatto di casermoni opachi, odori di nauseanti combustioni e piazze di polvere gialla percosse da una luce ottusa, dove barcollano anime distrutte, devastate dall’eroina, consolate dall’ombra dei sicomori e dalle scogliere di una bellezza sconvolgente che sopravvive, non si sa come, all’infamia delle fabbriche di Priolo.

Ma è anche il racconto di un luogo. L’ambientazione verista che tanto avevo apprezzato in Sangue di Cane (l’esordio del 2010, scoperto grazie alla preziosa segnalazione del blog Vibrisse), così feroce e così estranea alla polverosa e vetusta panzana della sicilianità, in Mazzarrona si prende tutta la scena, lasciando agli altri personaggi il ruolo di comprimari che si muovono come spettri, imprigionati negli occhi della narratrice. Narratrice che nella disperazione di Mazzarrona e dei suoi spettri cerca verità e bellezza (gli ingredienti dello stile), e trova invece il riflesso della propria inadeguatezza, il suo essere rinchiusa in una rete di barriere fittissima, l’incapacità di appartenere a qualcosa o qualcuno, il sentirsi sempre estranea, l’essere soli. Cercare l’amore che solleva e sublima la vita ma cercarlo nel luogo sbagliato, in cui tutto quanto è ridotto alla pura sopravvivenza, e amare è soltanto cercare la conferma, negli occhi dell’altro, di essere ancora vivi.

Lo stile è tutto, in Mazzarrona. Una prosa scintillante, che si può permettere di snocciolare riferimenti letterari altissimi con un misto di compiacimento e sacralità, passando dagli espressionismi di Un Amore di Dino Buzzati e de La Casa in Collina di Pavese all’inevitabile memoriale berlinese di Christiane F, agitato e a un certo punto perfino abiurato come il libretto rosso di Mao. Ma come detto, la Tomassini può permetterselo, può permettersi molto, perché il suo stile scintilla e fa scintille. Il luogo e la narratrice sono come incudine e martello, si scontrano e si danno fuoco, picchiano e subiscono in un efferato scambio di colpi e di ruoli. La lingua percuote con ferocia e prosegue con la stessa diafana eleganza dei suoi personaggi (come l’amato Massimo che somiglia a Morrissey e muove le mani come Jeremy Irons, o come la bella Mary che nasconde sotto lunghi guanti di seta le piste lasciate dalle spade di eroina), poi torna sui suoi passi e riprende a percuotere dove già aveva colpito. I ricordi si susseguono, si affastellano, si confondono, si ripetono come mantra martellanti, avvinti in lirismi prodigiosi e bulimici che si fanno via via più misurati e ficcanti con il passaggio, graduale e straordinariamente ponderato, dalla compiaciuta malizia dell’adolescente all’amarezza indulgente e meravigliosa dell’adulta, che si guarda indietro per cercare di capire, e si rende conto che capire è impossibile, è sbagliato, rimarrà sempre uno iato tra la realtà e la sua rappresentazione, tra la vita e la memoria. E che lo stile è, prima di ogni cosa, una corazza per proteggere il vero.

«Erano piccole strade senza aperture in fondo. Piccole strade, verso orizzonti angusti. Era il mio mondo, lo avevo scelto, ci ero finita dentro. Arrivai alla maturità e la superai non so in virtù di quale fortunate circostanze. Uscii dal liceo senza troppo clamore, senza che meritassi almeno una mostrina per l’impegno, lo studio, la costanza. Ma siamo già un passo più avanti. Non temo di riferire che la mia solitudine – severa e irrevocabile – cominciò a governarmi allora, cominciai allora a costruirne i recinti, collocandoli opportunamente perché mi opprimessero abbastanza. Cosa stavo nutrendo? Di quale assenza rivendicavo la sostanza? Di quale indugio? La noia calava sulle case, puntuale, a mezzogiorno in special modo, quando la luce era ottusa, la polvere sollevava piccoli vortici, i cardi rintuzzavano le cime verso il mare, muovendosi con impaccio, e le nubi della condensa si concentravano nell’unico margine oltre le torrette fumanti, dentro il vapore sonnolento del maestrale. Mazzarrona era un deserto. La mia giovinezza era un deserto. Lo ripeto oggi sillabando, quasi fossi stata folgorata da un sostantivo definitivo. Una rivelazione, esplosa di colpo nelle mie mani, mentre a tentoni cercavo, tra le cose, i significati segreti del tempo. Dentro le cose, riposano i significati segreti del tempo. A volte sono in attesa di noi».

Manoscritto difficile e non per tutti, per l’impegno emotivo che richiede. Manoscritto raro e preziosissimo.

Recensione di Isidoro Meli

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Conosci l'autore

Veronica Tomassini

1971, Italia

Veronica Tomassini è siciliana, ma di origine umbre, e lei molto puntigliosamente tiene a precisarlo. Giornalista, ama le ambientazioni suburbane, gli outsider, gli immigrati,  gli sfrattati ad oltranza dal sentire borghese. Ama i perdenti perché neanche lei ha vinto mai qualcosa, nella vita in generale. Scrive sul Quotidiano La Sicilia dal 1996. Il suo primo romanzo è Sangue di cane (Laurana, 2010).

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