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Jon Fosse, premio Nobel per la Letteratura 2023, cattura la luce e le ombre che illuminano le anime di due uomini lontani nel tempo. Il risultato è un romanzo immaginifico, selvaggio e intenso come il cielo del Nord, con una scrittura musicale che racconta la perdizione dell’arte e la forza di sentimenti irrefrenabili.
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Certo è che, se decidi di leggere un libro dal titolo 'Melancholia', non è che puoi aspettarti botti di allegria, eh... E quindi, vai con un mesto stile paratattico ed ecolalico che alle prime due pagine ne hai già piene le tasche: sembrano pagine di telegrammi e penso - "Se mi ridice per la decima volta che indossa il suo abito di velluto color malva, (in realtà lo ripete 54 volte in 439 pagine) butto il libro dalla finestra (no, non lo posso fare, è della biblioteca) e poi no, non va; io certe ossessioni le accetto solo da Bernhard" -. Però occhio!, Fosse, in men che non si dica, mi ha risucchiato nei suoi monologhi interiori al punto da farmene subito produrre uno, e questo vuol dire che esercita una certa forza narrativa. Ed è solo da questo punto di vista che non posso giudicare negativamente 'Melancholia', perché c'è controllo in quella potenza. E che vuol dire? Vuol dire che, comunque, l'impatto di questa prosa non è caotico e sterile perché ha prodotto gli effetti di contagio stilistico di cui sopra e, alla fine, Fosse conduce, guida il lettore dove vuole lui, non lo lascia mai deviare, e il quadro prende così una forma molto definita: in questo consiste il controllo. Però, la sua conduzione risulta estenuante e quindi perde di efficacia. La narrazione sembra incepparsi come uno pneumatico slitta sulla neve, poi arriva un pezzettino di asfalto, e c'è uno scatto in avanti nell'azione che incuriosisce e tende a tenerti lì, ma il problema è che un cambio di scena ogni cinquanta pagine è davvero troppo poco, e mi si è bruciata la frizione. Forse, però, è vero anche che bisognerebbe contare più sulla forza sotterranea di questa lettura, sugli effetti subliminali che può produrre (se li produce), altrimenti perde di senso e valore. Quindi boh!, non so più come prenderla, mi sta annoiando, e come con 'Mattino e sera' sospendo il giudizio. Ma siccome è la seconda volta che lo sospendo, mi sa che ne sospendo pure la lettura - ad infinitum!
Il 5 dicembre La nave di Teseo ha dato nuova vita a 𝘔𝘦𝘭𝘢𝘯𝘤𝘩𝘰𝘭𝘪𝘢 𝘐-𝘐𝘐, una delle opere più importanti del Premio Nobel per la Letteratura 2023 Jon Fosse. I due volumi, tradotti da Cristina Falcinella, erano già stati riuniti e dati alle stampe da Fandango Libri nel 2009: fanno ora seguito al racconto 𝘔𝘢𝘵𝘵𝘪𝘯𝘰 𝘦 𝘴𝘦𝘳𝘢 (2021) e al romanzo-fiume 𝘚𝘦𝘵𝘵𝘰𝘭𝘰𝘨𝘪𝘢, 1250 pagine in sette parti spalmate nei libri 𝘓'𝘢𝘭𝘵𝘳𝘰 𝘯𝘰𝘮𝘦 (2021), 𝘐𝘰 è 𝘶𝘯 𝘢𝘭𝘵𝘳𝘰 (2023) e 𝘜𝘯 𝘯𝘶𝘰𝘷𝘰 𝘯𝘰𝘮𝘦, di prossima pubblicazione. Con una scrittura labirintica e psicotica, 𝘔𝘦𝘭𝘢𝘯𝘤𝘩𝘰𝘭𝘪𝘢 esplora dall’interno la mente del pittore norvegese Lars Hertervig. Allievo dell'Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, Lars è innamorato di Helene Winckelmann, la figlia della sua padrona di casa: quando lo zio della ragazza gli ordina di lasciare la stanza, non tarda a sprofondare nella follia. Intorno a lui, sull'orlo del baratro nel quale sta per precipitare, volteggiano schiere di pittori che non sanno dipingere: i giovani apprendisti dell'atelier di Hans Gude, che si divertono a deriderlo tra i tavoli del bar in cui sono soliti ritrovarsi. Non li dimenticherà, Lars, quando sarà internato nel manicomio di Gaustad, così come non dimenticherà mai Helene. L’ossessiva ripetitività di questi pensieri si fonde con l'infrangersi delle onde sui fiordi dell'isola di Borgøya, con i movimenti delle nuvole nel vento e con la luce nera riflessa dai suoi occhi. Folgoranti lampi di verità che, grazie ai suoi dipinti, un secolo dopo si insinuano nell'immaginazione di un tormentato scrittore, Vidme, non senza essersi riverberati nelle reminiscenze senili di Oline, la sorella maggiore del pittore, protagonista del secondo volume. Chi presterà ascolto fino in fondo alle voci di questo libro troverà conferma della motivazione per cui Jon Fosse è stato insignito del Nobel: la sua capacità di esprimere l'indicibile.
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