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Marjorie Standiford è detenuta nel braccio della morte di un penitenziario dell’Oklahoma, e a mezzanotte verrà giustiziata. Ma prima detterà a un registratore la sua versione di come, otto anni fa, si svolsero i fatti che hanno portato al suo arresto e alla sua condanna alla pena capitale. Stephen King ha comprato i diritti della sua storia e ha compilato una lista di centoquattordici domande alle quali, per contratto, lei dovrà rispondere. Ma la verità di Marjorie, la sua proclamata innocenza, resterà quella effimera dell’oralità, schiacciata tra le menzogne della sua complice Natalie – autrice di un best-seller al quale lei cerca di ribattere – e la finzione che il Re dell’horror ricaverà dai suoi nastri – e a cui lei, lettrice di tutti i suoi romanzi, volentieri si piega, disseminando il suo discorso di suggerimenti per rendere la storia più appetibile e di riferimenti alle opere del suo scrittore di culto. "Tu potrai inventarti la storia che vorrai. Desidero solo che ascolti quella vera, prima", dice accingendosi a rispondere alla domanda inaugurale. Il partito etico che Stewart O’Nan trae da questo meccanismo narrativo è evidentemente quello di conferire durevolezza proprio a questa verità transitoria e deperibile: la verità del condannato a morte. Ma il suo merito principale è letterario, e risiede nell’abilità con cui è riuscito a reggere il gioco. Nell’ambito della finzione, infatti, quella di Marjorie è l’ennesima versione di una storia che, almeno nelle linee generali, è già nota al suo destinatario – per essere stata riportata dai giornali, ricostruita in tribunale e nel libro di Natalie – e che pertanto non può essere semplicemente raccontata, ma deve essere piuttosto rievocata. L’abilità di O’Nan, dunque, non consiste tanto nell’essere riuscito a raccontare la storia sotto forma di risposte (a domande implicite ma sempre chiaramente desumibili dal testo), quanto nell’aver saputo farla emergere da quelle risposte come se noi stessi la conoscessimo già. L’operazione metanarrativa è tipicamente postmoderna, ma la scrittura di O’Nan (e la traduzione di Montanari), plausibilmente orale, è quanto di più lontano si possa immaginare dagli esoterismi della "letteratura al quadrato", e anche i riferimenti ai romanzi di King (scelta felicissima) fanno parte – insieme a canzoni, automobili, trasmissioni televisive, pietanze di fast-food e chi più ne ha più ne metta – della cultura popolare della credibilissima narratrice. Ma il romanzo ha anche un altro punto di forza: il modo in cui si sviluppa la storia, nella quale tutto si compie per una sorta di necessità esterna ai personaggi. È così che Marjorie passa dalla Diet Coke all’alcol e – insieme a Lamont, conosciuto nel frattempo a una stazione di servizio – alle pasticche e alla droga in vena. Ed è così che i due – insieme a Natalie, conosciuta nel frattempo in un penitenziario – passano dal consumo al piccolo spaccio. E basta un incidente perché il miraggio di un facile guadagno si trasformi nella necessità di una grande quantità di denaro (per salvare la pelle dai creditori). Di qui un maldestro tentativo di rapina che si risolve in sanguinaria mattanza. E tutto avviene secondo la più graduale e lineare delle progressioni, fino all’epilogo della disperata fuga in auto verso ovest: "Tutta la notte e tutto il giorno dopo. È stato per questo che mi hanno dato quel soprannome, la Speed Queen". "Perché verso ovest? È una cosa che viene naturale, qui". I tre, insomma, non sono dei natural born killers, e se le loro azioni non sono semplici infortuni di cui non possano essere ritenuti responsabili, non sono neppure l’espressione di una malvagità in qualche modo connaturata in loro. Si tratta piuttosto di quel tipo di errore di chi, proprio come noi, si rivela fallibile, e in cui Aristotele riconosceva un tempo l’essenza del tragico. Dunque, attento lettore: de te fabula narratur.
recensioni di Vinçon, P. L'Indice del 1999, n. 10
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