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Nella primavera del 1968 il Manchester City vince il suo secondo (e ultimo) campionato in più di cento anni di storia. Meno di una settimana dopo, il Manchester United polverizza a Wembley il Benfica e diventa la prima squadra inglese a vincere la Coppa dei campioni. Stampa e tv impazziscono per le gesta dei red devils, lo scudetto del City è già dimenticato. Basterebbe questo episodio per capire come ci si può rovinare la vita con una scelta sbagliata. Nel caso di Colin Shindler, quella di tifare per lÆaltra squadra di Manchester, figlia di un dio minore e pure terribilmente sfortunato. La mia vita rovinata dal Manchester United è un romanzo autobiografico di formazione scandito dalla frustrazione. Da una sconfitta dell'amatissimo City all'altra, da un trionfo dell'odiatissimo United all'altro, Shindler rievoca un'infanzia, un'adolescenza e infine una maturità vissute sempre e comunque dalla parte dei perdenti. Ebreo per nascita, laburista per convinzione, supporter del City per vocazione al martirio: ce n'è abbastanza per passare un'esistenza perennemente in minoranza. Shindler ce la racconta con ironia e tenerezza, e l'indubbio merito di non inseguire il modello Nick Hornby compensa le rare cadute di tono nella scrittura. Nonostante qualche ingenuo sentimentalismo, l'autore non si fa risucchiare negli abissi retorici del "calcio come metafora della vita", tipici di certi autori sudamericani. In alcuni momenti sembrerebbe invece sottoscrivere la teoria che vuole l'essere umano antropologicamente modificato dalle vicende della sua squadra di calcio, specialmente quando è costretto a confrontarsi tutta la vita con un modello vincente. Del resto, qualsiasi appassionato di calcio la sottoscriverebbe. Soprattutto se è tifoso del Torino.
Carlo Bordone
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