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Avuto riguardo della biografia di Gaetano Afeltra e stando alle dichiarazioni in premessa, questo suo libro di conclamato amore alla città di Milano avrebbe dovuto avere lo spessore lirico delle lettere di Abelardo. Ne salutai con gioia l’uscita non perché negli scaffali delle librerie manchino libri d’amore per Milano, ma per il fatto che ogni volta che se ne aggiunge uno a me pare che si assolva ad una sorta di obbligo morale. Ma molto mi ha deluso il modo nel quale l’obbligo Afeltra lo assolve. La Milano capitale morale del Paese, la Milano metropoli europea, la Milano che ancora conserva il retaggio d’una sua antica e aristocratica superiorità “etica”, merita penne alate di nuovi Pindaro, non libercoli superficiali e frettolosi. Numerose sono le omissioni e parecchie le superficialità. Basso mi pare il tono e dimesso lo stile di scrittura, anche quando questo suo grande amore Afeltra surrettiziamente lo grida. A mio vedere il vecchio Afeltra, che la generosa Milano ha nutrito come tanti suoi colleghi conterranei del suo latte migliore (quello del Corriere della sera, tanto che il lombardo Brera pel dispetto lo chiamava Partenope sera), non ha assolto ai suoi doveri di riconoscenza come avrebbe dovuto. La sua galleria di personaggi mi appare curata male e frettolosamente, gli elogi abbastanza rituali, scarsa l’aneddotica. Non si cala a scrutarla da vicino e non si eleva con lei. Non ce ne descrive i falansteri, le porte che menano alle periferie, gli agglomerati, le ondate immigrative, gli stili di vita. Viene a raccontarci che Radetzky vi volle tornare per morirvi, ma, imperdonabile omissione, si scorda dei navigli! Di quei navigli che milanesi lo sono, o lo furono, come mai altra cosa lo è stata, e dei quali purtroppo si è perduto il ricordo. Poco o nulla ci dice delle grandi fortune e di come vennero costruite (o, a volte, distrutte; capita anche questo), dei grandi nomi dell’operosa borghesia lombarda ci fa solo cinque o sei casi. Nulla ci dice dei luoghi
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