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Tocca, questa volta, a Garzanti la fatica di pubblicare il nuovo lavoro (nuovo si fa per dire, perché ha impiegato tre anni a essere tradotto) della scrittrice croata Dubravka Ugreić, prima "scoperta"da Bompiani e poi raccolta da Nottetempo. A chi è capitato di leggere quel monumento innalzato al dolore della perdita della patria nativa che era Il museo della resa incondizionata (Bompiani, 2002; cfr. "L'Indice", 2003, n. 2), questo Il ministero del dolore non potrà che risultare familiare, nei temi, nella voce impaziente e cupa della protagonista, nel profilo di coloro che le stanno intorno.
Qui c'è solo un cambio di scena, Amsterdam, "una disgustosa Disneyland per adulti, mentre là, barlumi di città, Berlino, New York facevano da teatro occasionale per i vagabondaggi coatti della protagonista. Tania Lucic, la compagna Lucic, è scappata da Zagabria subito dopo l'accendersi del conflitto balcanico nel '93. In patria insegnava letteratura serbocroata. Grazie all'interessamento di un professore universitario di origini croate, a Tania Lucic viene offerto un corso universitario all'Università di Amsterdam in supplenza del precedente docente di ruolo. Il suo compagno la lascia andare, preferendo un lavoro in Giappone. Nessuno in verità è davvero interessato a lei e a quello che insegna. I colleghi l'accolgono assai tiepidamente, promettendole, chissà, di prendere una volta o l'altra un caffè insieme. Gli allievi che si iscrivono al suo corso sono spinti da ragioni del tutto aliene rispetto all'insegnamento in sé. A loro serve, in verità, l'attestazione che provi il loro status di studenti per poter ottenere, e poi rinnovare, il permesso di soggiorno. Come la loro insegnante, anche gli allievi sono in fuga dal proprio paese. E con le più diverse motivazioni. Non solo politiche, ma anche, e soprattutto, umane. Matrimoni falliti, scelte sessuali vietate, povertà, solitudine. La guerra è, in questa accezione, un'occasione per tentare una seconda vita. Le condizioni materiali di insegnante e allievi si assomigliano. Appartamenti bui, umidi, in zone fuori mano, pasti consumati in locali marginali, abiti fuori moda e piccoli lavori di sostentamento all'insegna dell'illegalità. Il ministero del dolore del titolo, infatti, è un laboratorio dove si confezionano abiti per i sex shop: "Uno dei club porno e sadomaso dell'Aia si chiamava Ministry of Pain. Per questo i miei studenti chiamavano la pornosartoria il Ministero. I sadomaso sono veri e propri fighetti, compagna. Non pensano che il corpo più bello sia il corpo nudo. Se io fossi Gucci o Armani ne terrei conto, scherzava Igor".
Il romanzo, che è suddiviso in cinque blocchi, segue, più o meno fedelmente, l'andamento del corso che fa da contenitore generico alle vite degli allievi e della loro insegnante. Al fine di recuperare le identità che tutti loro si sono sentiti strappare via dalla pelle, la compagna Lucic tenta di ricostruire delle personali micromemorie in questo Dubravka Ugreić è forse l'esempio letterario più efficace di che cosa sia quella che lei definisce la jugonostalgia attraverso le quali, grazie a un processo di lenta riappropriazione, la lingua perduta dovrebbe tornare a farsi sentire come originaria. Ecco allora gli esercizi di scrittura sul fumetto Boban, sui tè danzanti, sulla ricetta per la "pentola bosniaca", sulle palline di vaniglia, sulla nostalgia del sud, sulla mano della madre che stringe quella di Tito, sui treni senza orario, sul voler diventare l'usignolo con il compito di svegliare Tito alla mattina. Nella tenuta di questa finissima tessitura, l'insegnante sembra riporre le più alte aspettative. Ma poi, a causa di alcune voci negative e del titubante giudizio del suo docente di riferimento sul suo lavoro, il meccanismo si inceppa e il romanzo assume tonalità e forme minacciose. Le ferite non si rimarginano ma, anzi, continuano incessantemente a dolere, la patria il buco che ha lasciato non si recupera ma solo si rimuove, come testimonia la visita di Tania alla madre rimasta a Zagabria, il bene come il male si dimenticano ma non si "riparano".
La diaspora del popolo serbocroato è in atto, si riconoscono l'uno con l'altro come farebbero i cani: "Siamo dei barbari, siamo il doppio fondo di questa bella società, siamo le dita incrociate in tasca, siamo il diavoletto nella scatola, siamo la maschera brutta, il mondo parallelo, i mezzi uomini". Non sembra esserci via d'uscita. Terribile una delle scene finali in cui Tania Lucic è sottoposta a una tecnica di tortura che passa dalla seduzione alla pura violenza da parte di un suo studente serbo. Infine, il lungo epilogo che sembra arieggiare alcune pagine di Ivo Andrić, uno degli autori sconfessati dalla stessa Tania, che è una paradossale invettiva contro un possibile colpevole, una preghiera apocrifa, una maledizione arcaica, lanciata contro chi, in quella guerra, porta il peso della colpa. Anche in questo caso, la voce di Dubravka Ugreić si alza come una mannaia, spietata e originalissima, su ogni facile lettura di che cosa voglia dire essere profughi oggi, anche all'interno delle università, o dei circuiti intellettuali, o in ambienti cosiddetti aperti come immaginiamo che possano essere città come Amsterdam, che agli occhi di questi "ospiti"appare "come una mostra permanente".
Camilla Valletti
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