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La condanna, pronunciata da Popper, di Platone come “totalitario”, ha autorizzato molti cosiddetti riformisti e liberali a chiudere i conti con il filosofo greco un po’ troppo in fretta. C’è da chiedersi se, salvo restando la salutare diffidenza verso tutte le visioni “etiche” e “integrali” della società, non ci si sia liberati con troppa facilità di temi che, malgrado tutto, restano centrali nella civiltà occidentale. E c’è da chiedersi se certe questioni metafisiche, cacciate dalla porta, non stiano per caso rientrando dalla finestra, sotto forma di fanatismo, di millenarismo, di misticismo “globale” o di utopie pseudo-religiose. La politica è in crisi perché, come diceva il vecchio Marx, «Tutto ciò che vi era di solido e di stabile svapora nell’aria» e allora, forse, per cercare di capire che cosa fare, vale la pena di riprendere in mano qualche classico. Ciro Sbailò ritiene che i politici debbano rimettersi a studiare Platone, specie ora che l’Europa sta affrontando la sua fase costituente e si interroga sulla propria “identità”. E per questo ha ripreso il Minosse o della legge (a cura di Ciro Sbailò, Liberilibri, Macerata 2002), un piccolo e quasi dimenticato dialogo platonico, scritto probabilmente da un allievo su ispirazione dell’insegnamento del maestro; lo ha tradotto di nuovo e lo ha commentato con un’ampia introduzione e un ricco apparato critico, che fanno di questo volumetto anche una sorta di introduzione al pensiero politico e giuridico di Platone. L’operazione culturale ed editoriale è complessa e si svolge a più livelli. In primo luogo, Sbailò afferma – e mostra, con argomenti convincenti – che la fine della metafisica è un “idolo” che va demolito. Il problema del rapporto della politica con la verità resta ineludibile per la cultura occidentale. In questo senso, non esiste un’evoluzione in senso storico di alcune questioni fondamentali della nostra civiltà: il rapporto tra “giustizia” e “diritto”, ad esempio, al di là delle varie forme in cui si presenta, è una costante della nostra storia
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