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Tutti i formati ed edizioni
Anno edizione: 1991
Promo attive (0)
BEN JELLOUN, TAHAR, Notte fatale, Einaudi, 1988
BEN JELLOUN, TAHAR, Moha il folle, Moha il saggio, Edizioni Lavoro, 1988
BEN JELLOUN, TAHAR, L'estrema solitudine, Milvia, 1988
BEN JELLOUN, TAHAR, Creatura di sabbia, Einaudi, 1987
recensione di Saracino, M.A., L'Indice 1989, n. 7
La ventisettesima notte del mese di 'Ramadan', quella che per la comunità mussulmana ricorda la "Discesa" del Libro, è 'Notte fatale'. Notte di prodigi, si dice, nella quale "i destini degli uomini vengono suggellati", ma anche quella in cui gli enigmi si sciolgono, mentre il silenzio di stanze a malapena illuminate dalla luce di una candela rende propizi la confessione e il perdono. E in questa notte, di un anno che non conosciamo ma presumiamo non lontano da noi, che un padre, sul letto di morte, affranca il proprio figlio dalla schiavitù cui con la nascita lo aveva egli stesso condannato, restituendogli così la libertà. Una libertà del tutto speciale ed inquietante, tuttavia: quella di riprendersi "ufficialmente" la propria identità sessuale, e con essa il proprio ruolo sociale. Allevato come fosse maschio, Ahmed potrà riprendersi il sesso in cui è nato e tornare ad essere una donna, passando così, e paradossalmente, in virtù di questo atto liberatorio, dalla parte degli oppressi.
L'episodio del quale si parla è uno dei momenti centrali di 'Notte fatale', romanzo con il quale lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun vince nel 1987 il premio Goncourt, e che appare in traduzione italiana nella raffinata traduzione di Egi Volterrani. Un gesto liberatorio, dicevamo, il quale tuttavia non crea conoscenza poiché Ahmed - Zahra, che dal padre morente riceve il permesso di riconoscersi donna, ha già incontrato i misteri della propria anatomia. Ha imparato, con curiosità e paura, a lasciar parlare le molte voci in lotta dentro di lei, da tempo imprigionate in un corpo che chiede di definirsi, ed ha compreso - e dolorosamente - sulla propria pelle fino a qual punto l'anatomia e il destino possano coincidere fin quasi a sovrapporsi. Ciò che le parole dell'uomo trasmettono alla figlia, in pagine di grande bellezza, è il racconto di una nascita frutto non già dell'amore fra un uomo e una donna, ma di un desiderio, assoluto quanto indomabile, e di uno sguardo, lo sguardo del padre. "Soltanto l'arrivo di un figlio maschio avrebbe potuto ridarmi gioia e vita", racconta l'uomo morendo. "Hai cominciato a esistere nel mio spirito... Non ho mai visto in te, sul tuo corpo, gli attributi di una femmina... Te, ti ho concepito io nella luce, nella gioia interiore". Ma adesso, aggiunge, "...io chiedo che mi sia accordato il tuo perdono... Lascia questa casa maledetta, viaggia, vivi!... La notte del destino ti dà un nome: Zahra". E Zahra vivrà, viaggerà, libererà il suo corpo e la sua mente, comincerà un lungo e doloroso processo alla ricerca di una identità che la rispetti, di un linguaggio che la esprima, di una cultura in cui rispecchiarsi. Un vagabondare lungo e accidentato che la donna narrerà in prima persona, forte di questa sua ritrovata identità che oltre che un corpo le offre una voce con cui dire di sì, e una dignità con cui assumere il diritto alla parola.
Una ricerca, quella di cui si parla in "Notte fatale", che pur trovando una propria autonomia narrativa nelle pagine di questo singolare romanzo, affonda le sue radici in un'opera che di poco lo precede, "Creatura di sabbia", narrazione polifonica di straordinaria bellezza e complessità, in cui il racconto della vicenda di Ahmed originariamente affidato ad un 'griot', trascorre man mano da una voce all'altra. Voci che si susseguono inseguendosi, accavallandosi, facendosi largo sulla pagina come tra la piccola folla che circonda di volta in volta il cantastorie. E che aggiungono particolari al racconto, offrono differenti angolature e spostamenti di rotta. Voci altrettanto variegate quanto lo sono le facce della cultura marocchina che per bocca di Tahar Ben Jelloun si è imposta prepotentemente alla attenzione del pubblico italiano, che ad essa può oggi accostarsi anche attraverso altri due scritti del medesimo e prolifico autore, il romanzo "Moha il folle", "Moha il saggio", e il libro-inchiesta "L'estrema solitudine".
Si tratta, nel primo caso, di un lungo monologo prodotto dall'alternarsi di più voci tenute insieme dal canto del 'griot', quel Moha che dà il titolo al libro (e che, ci avverte la bella introduzione di Majid El Houssi, rimanda alle prime due sillabe del nome Mohammed, Maometto, ma anche a Goha, protagonista degli aneddoti maghrebini), che è saggio in quanto depositario della verità e della storia del suo popolo, ma anche folle, e come tale di tutto questo può parlare. E se nell'una veste egli deve essere annullato, distrutto, poiché pericoloso e destabilizzante, nell'altra può assumersi invece il diritto alla parola, che può allargare a tutti coloro cui nella sua cultura essa è stata negata. Se da un lato dunque Moha è in lotta contro il tempo della nuova Storia, che lo condanna a tacere, dall'altro egli si fa alleato della memoria e della tradizione che forse si vorrebbe far scomparire, ma che per suo tramite può continuare invece a parlare. Un grande affresco della condizione umana che soffre e al tempo stesso rivendica il diritto alla memoria, attraverso le voci dei suoi dolenti protagonisti. Valgano per tutte alcune bellissime pagine centrali dedicate alla condizione femminile, qui raccontata in modo diretto e persino brutale attraverso le vicende della schiava Dada, di cui il padrone può violentare il corpo ma non la volontà. Considerazioni amare, non ancora metafora allargata della condizione di sofferenza di tutta la cultura marocchina, come avverrà in due romanzi di cui s'è detto, ma testimonianza diretta di una violenza che perpetuandosi attraverso i vari gradini della scala sociale trova nella donna il ricettacolo ultimo e meno difeso. Pagine intense, che richiamano quelle, altrettanto belle, che la scrittrice algerina Assia Djebar ha recentemente scritto nella raccolta di racconti "Donne d'Algeri nei loro appartamenti" (Giunti, Firenze 1988).
Con "L'estrema solitudine" ci discostiamo dal tracciato della narrativa per inoltrarci nel campo del documento. Si tratta di un libro - inchiesta sulla condizione di emarginazione degli emigrati maghrebini in Francia, basato su testimonianze autentiche raccolte con i metodi della storia orale. Un testo, come recita il sottotitolo, sulla "miseria affettiva e sessuale di emigrati nordafricani", frutto di una tesi di dottorato in psichiatria sociale sostenuta dall'autore presso l'università di Parigi nel giugno 1975. Un lavoro importante, che richiama gli iscritti di F. Fanon, negli anni cinquanta, sul medesimo tema, ed è illuminante - come scrive Gad Lerner nella rigorosa introduzione al volume - nel disvelare le radici della letteratura e della poesia di Ben Jelloun. Anche lui infatti, come già all'epoca Fanon, è totalmente partecipe di una esperienza umana e terapeutica dalla quale non può uscire che trasformato. E le ferite aperte, reali, che egli pone sotto i nostri occhi e che, ci dice, riappaiono sotto altre forme anche quando sembrano cicatrizzate, hanno per territorio la "storia vacillante", mentre il corpo sul quale si giocano solitudine, infelicità, malattia, è tutto ciò che resta all'emigrante costretto a fare a meno della sua stessa terra. Così ben presto anche il corpo, privato del diritto alla affettività e al desiderio, quello stesso corpo la cui potenza sessuale rappresentava per l'europeo uno spauracchio e una sfida, può diventare sessualmente impotente, generando una forma di "sovversione silenziosa". Un libro senz'altro importante e sul quale riflettere, anche alla luce di analoghe esperienze di emarginazione e sofferenza che l'emigrazione di colore sta vivendo da noi e che trova i più culturalmente impreparati ad affrontarla.
Ultimo, ma non meno importante, il contributo che le giovani letterature africane - di cui l'opera di Ben Jelloun è esempio lampante - ci offrono nel rileggere anche i nostri comportamenti e modelli culturali attraverso l'elaborazione che direttamente o indirettamente ne fanno. Quando nel 1922 il martinicano Ren‚ Maran, primo scrittore di provenienza coloniale, vinceva il premio Goncourt (che l'anno precedente era andato a Marcel Proust con "La Recherche") con "Batula", romanzo di esplicita condanna del colonialismo, gran parte dell'opinione pubblica francese insorgeva gridando allo scandalo. Oggi, Ben Jelloun è celebrato in Francia quale sublime manipolatore della lingua francese, che di simili apporti ha dovuto ormai riconoscere i benefici effetti. Segno di una acquisita consapevolezza culturale da parte dell'antico colonizzatore, e della capacità dell'antico colonizzato di dar voce alla propria esperienza "attraversando la vita con un'orda di parole" come fa da anni, e con successo, Tahar Ben Jelloun.
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