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Capita ogni tanto di leggere o di sentire in giro duri giudizi sul carattere scadente dell'arte, della letteratura o del cinema odierni, mentre in genere lo stesso scetticismo risparmia le attuali scienze umane come l'antropologia o la storia delle religioni: eppure, come direbbe Toto', "ce ne sarebbe ben donde !" : basta infatti leggere uno degli ultimi libri di Detienne o di Burkert (non parliamo poi dei professorini loro epigoni !) per chiedersi se forse non è il caso di riconoscere che tutto quello che poteva essere detto sul mito, sul rito, sulla natura della religione è ormai stato detto. A queste considerazioni mi ha indotto il libro di Heesterman, un'opera al limite della legibbilità e della comprensibilità, essendo costituita, per usare un'immagine, da uno spezzatino di minutaglie mitologiche e rituali condite da una interpretazione vaga e per niente originale (la teoria della natura "ludica" del rito è infatti mutuata da Huizinga e da K. Lorenz). Un esempio per illustrare i limiti interpretativi di questo testo è costituito dalle considerazioni dell' Autore circa la costruzione dell'altare del fuoco, uno dei piu' importanti e complessi rituali brahmanici in cui, com' è noto, gli officianti impilano dei mattoni in modo da costruire un altare a forma di uccello dalle ali spiegate: bene, Heesterman se ne esce affermando che, a rituale compiuto, la frustrazione degli officianti di fronte a questo uccello che non vola sarebbe tale e tanta per cui non rimane loro che smontare l'altare e reimpiegare i mattoni per scopi profani. Personalmente trovo quest'affermazione un 'assurdità non solo dal punto di vista del senso comune, ma anche e soprattutto in una prospettiva mitico-rituale; un brahmano direbbe: "Egregio professor Heesterman, il rito della della costruzione dell'altare di mattoni rappresenta niente meno che la ripetizione della creazione del mondo: è grazie a questo rituale che il mondo continua a sussistere, è grazie a questo rituale se in cielo esistono uccelli in grado di volare..."
Opera farraginosa e barocca, il libro ruota attorno ad un nucleo interpretativo vago e poco originale: il sacrificio vedico sarebbe un complesso rituale in cui le contraddizioni della realtà umana e cosmica (vita e morte, interessi individuali e collettivi, ordine e caos ecc.) vengono "messe in scena", manipolate, ma non risolte. Tutto questo è innegabile (e non solo a proposito del rituale vedico, ma dei "paganesimi" in generale), ma viene da chiedersi: perchè l'uomo vedico sarebbe ricorso a simili messe in scena? l'autore non affronta questa domanda ne' direttamente ne' indirettamente, salvo ricorrere ad un vago psicologismo secondo cui il rituale, il comportamento stereotipato, il gioco, sarebbero consolanti di per se'. Come si vede l' autore ignora il tratto fondamentale delle società tradizionali: le contraddizioni del reale non vengono abolite, certo, (come avviene nelle facili "religioni superiori"), ma vengono comunque spiegate nei miti la cui ripetizione rituale offre agli individui sicurezza e fiducia. Il libro è di lettura impervia e faticosa, proprio perchè accumula una massa enorme di particolari e di minuzie attorno ad una linea interpretativa fragile e inconcludente. E' tristissimo: sembra che, dopo le prime generazioni di studiosi del mito (da Frazer a Eliade o Dumezil), gli attuali santoni delle scienze umane non sappiano far altro che arruffare astruse ideucce attorno a teorie sempre piu' striminzite. Lo studio del rituale vedico è uno dei capitoli piu' appassionanti della Storia delle religioni: a chi fosse interessato raccomando le opere di C. Malamoud (soprattutto "La danza delle pietre") pubblicate sempre da Adelphi: li' si puo' ancora contare su quella chiarezza di linguaggio e semplicità di metodo che contraddistinguevano la miglior ricerca storico-religiosa.
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