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Anno edizione: 1998
Anno edizione: 2013
Anno edizione: 1995
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Nella nostra epoca l’idea della morte è spesso rimossa e allontanata come un tabù. Ma è davvero soltanto un evento assurdo, angoscioso, privo di senso? Questo libro è la cronaca di lunghe ore passate in un reparto di cure palliative accanto a malati terminali, un tempo particolarissimo in cui è ancora possibile dare una svolta alla propria vita e confrontarsi con gli altri in modo diverso. Attraverso i casi di vecchi, adulti, giovani e bambini, credenti e non credenti, accomunati da un’unica sorte di sofferenza, ma aiutati a porsi le domande essenziali e guardare in faccia il loro destino, ci viene offerta una testimonianza eccezionale di amore per la vita. Morire si rivela così un’occasione per vivere con intensità mai provata prima e raggiungere la vera pienezza.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un libro toccante,commovente scritto da una donna unica. Un esempio di cosa puo' fare l'amore,di cosa vuol dire essere compassionevoli. Grazie d'esistere.
Per me che ho appena perso mio padre ma anche per tutti quelli che vogliono comprendere con meno paura e più dolcezza la morte, un grazie commosso...
Recensioni
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recensione di Vineis, P., L'Indice 1996, n. 2
(recensione pubblicata per l'edizione del 1996)
Il libro, dal sottotitolo "Lezioni di vita da chi sta per morire", è stato scritto da una psicanalista junghiana (peraltro, all'apparenza, molto eterodossa), fondatrice di un centro di cure palliative per malati terminali in un grande ospedale parigino. Le reazioni che esso suscita sono diverse e contrastanti. La prima reazione, per un operatore sanitario italiano, è di incredulità: si stenta a credere che in una grande struttura pubblica esista un servizio il cui fine è dichiaratamente affettivo-psicologico, consistente nell'alleviare le sofferenze ma soprattutto nell'accompagnare il paziente terminale verso una "buona morte". La Hennezel non risparmia le critiche (non nuove) all'accanimento terapeutico e alla freddezza di una medicina che limita il proprio compito all'allontanamento spazio-temporale del decesso: il malato deve morire il più tardi possibile (che lo voglia o no, in molti casi) e possibilmente lontano, in isolamento: quella che Norbert Elias ha definito la "solitudine del morente". A queste critiche, certamente non originali, la Hennezel contrappone una proposta che è in parte tecnico-professionale in parte soggettiva e filosofica. Sul piano tecnico, molte considerazioni sulla necessità di introdurre, nella vita del morente, accanto o al posto delle stranianti e spesso inutili prestazioni mediche, modalità di contatto fisico e presenza umana sono certamente convincenti. L'individuo deve uscire dalla vita almeno con le stesse cure e attenzioni con cui vi è entrato: la morte - sostiene la Hennezel - è qualcosa di troppo importante per considerarla solo il momento terminale di una sgradevole agonia. Dunque il paziente va accompagnato e aiutato a mettere ordine nelle proprie relazioni - con i familiari, per esempio - e nel proprio equilibrio interiore. Il termine "palliativo" deriva da pallium (mantello), e suggerisce che il ruolo del terapeuta consiste nel "circondare con un manto protettivo le spalle del morente".
Il libro è ricco di esempi, anche commoventi, di "buone morti", nelle quali i pazienti - con l'assistenza dei terapeuti - hanno "chiuso i conti in sospeso". Ancora sul piano professionale, non solo colpisce la sensibilità dell'intera équipe di Parigi (ma sarà tutto vero? Non vi saranno mai cedimenti, rivendicazioni corporative...?), ma anche l'insistenza sull'ambiente adeguato, l'accoglienza dei pazienti, l'architettura. Quando l'autrice dice "Per fortuna abbiamo la nostra grande veranda, spesso soleggiata, da cui si vede il parco di Montsouris... A volte vi trasportiamo anche un letto", oppure - durante una visita molto elogiativa di Mitterand all'unità - "dipende dalla struttura architettonica che ricorda la calma dei chiostri, o dal color salmone così tenero del soffitto...", non posso fare a meno di pensare all'ospedale in cui lavoro e a molti ospedali italiani, dove questi aspetti di gradevolezza ambientale sono completamente sottovalutati.
Sul piano soggettivo-filosofico il libro è circonfuso di quell'entusiasmo "militante", un po' ingenuo e proselitistico, di chi è dedito a una pratica alternativa (in questo caso l'"aptonomia", basata su un approccio tattile affettivo). Da un lato questo atteggiamento suscita simpatia, se lo si confronta con un diffuso cinismo dell'ambiente medico. D'altro lato, esso suscita irritazione per la sua disarmante radicalità. Pur con molti pregi, il libro è pervaso da una sotterranea necrofilia; non solo l'autrice ha dedicato la propria vita alla morte, ma lo fa con un entusiasmo che lascia sconcertati. Talora questo entusiasmo rasenta involontariamente la comicità "noire" (tra Breton e la famiglia Addams): "Pervasa dal senso di pace tutto particolare che provo ogni volta che sosto in meditazione accanto a una persona appena scomparsa...".
Ancora dal punto di vista filosofico, alcune considerazioni sull'atteggiamento dei pazienti verso la morte mi paiono convincenti, altre meno. Per esempio, è interessante una serie di notazioni su come traspare, dai comportamenti dei pazienti, la compresenza di due pensieri contradditori: uno dice "so che sto per morire", l'altro "la morte non esiste"; queste considerazioni ricordano gli studi sulle relazioni medico-paziente dell'antropologo Byron Good. Altre pagine sono meno convincenti: un po' forzato, per esempio, mi sembra l'uso della psicanalisi junghiana per sostenere che una "buona morte" consiste nel fatto che il paziente si sveste della "persona", cioè della maschera che gli veniva imposta dai ruoli sociali.
Un argomento importante sollevato dal libro è quello riguardante l'opportunità di "dire la verità" al paziente. In Italia, come è noto, si tende spesso a occultare la diagnosi di malattie gravi, per la confluenza di due ordini di motivazioni: da un lato la fiducia nelle capacità terapeutiche della tecnologia medica e dall'altro, e in modo più evidente, la persistenza di una tradizione paternalistica. Il paternalismo medico ha una diffusione geografica che corrisponde all'incirca ai paesi cattolici; i protestanti tengono in maggiore conto la libertà e responsabilità individuali, mentre il cattolicesimo ha puntato di più sul ruolo protettivo della comunità (vi sarà qualche legame con la diversa distribuzione dei suicidi studiata da Durkheim?). Non intendo dare un giudizio di valore sui due atteggiamenti, ma tre argomentazioni mi sembrano convincenti nella posizione anti-paternalistica della Hennezel. Innanzitutto non dire la verità al paziente è un modo per non affrontare o non ammettere i limiti delle cure mediche. In secondo luogo, il paternalismo tende sistematicamente a sottovalutare le capacità che i pazienti hanno di accettare la morte e farsene una ragione. Può essere peggio - come dimostrano diversi caso portati dalla Hennezel - dibattersi nell'ansia del dubbio piuttosto che sapere qual è il proprio destino. Infine, non conoscere la verità può impedire quel percorso di rappacificazione con il mondo, di "chiusura dei conti aperti" che prelude a una buona morte. Il paternalismo medico, in realtà, non si esaurisce affatto nel tacere la verità: questo è spesso l'ultimo stadio di una lunga storia di scarso rispetto dell'autonomia decisionale e dei desideri del paziente. Assai raramente il paziente viene interpellato sull'opportunità di eseguire esami o terapie invasive e di difficile tollerabilità. Negli Stati Uniti ha segnato una svolta, sul piano giuridico, una famosa sentenza del giudice Cardoso secondo la quale l'individuo è il primo e principale responsabile del proprio corpo, incluse le sue manipolazioni a scopo medico. Il paternalismo è giustificato, secondo i manuali di bioetica, quando il paziente non è in grado di decidere autonomamente (per esempio perchè è in coma): ma il suo principale e immediato obiettivo è proprio restaurare la capacità di intendere e di volere dell'individuo. Nella tradizione anglo-sassone (protestante) questo è il punto di vista dominante, mentre la tradizione cattolica si differenzia. Al di là di questo, spesso assistiamo nei nostri ospedali a veri abusi di potere e a clamorose mancanze di sensibilità. Per questo è con qualche incredulità che leggiamo le pagine della Hennezel sul colore ideale delle pareti, o sul dottor Clément che "quando esce di casa il mattino per recarsi all'ospedale, pensa sempre alle infermiere... e quando arriva in reparto con il vassoio di paste profumate e il suo largo sorriso, un soffio di calore e di benessere si diffonde ovunque".
Nella nostra epoca l'idea della morte è spesso rimossa e allontanata come un tabù. Ma è davvero soltanto un evento assurdo, angoscioso, privo di senso?Questo libro è la cronaca di lunghe ore passate in un reparto di cure palliative accanto a malati terminali, un tempo particolarissimo in cui è ancora possibile dare una svolta alla propria vita e confrontarsi con gli altri in modo diverso. Attraverso i casi di vecchi, adulti, giovani e bambini, credenti e non credenti, accomunati da un'unica sorte di sofferenza, ma aiutati a porsi le domande essenziali e a guardare in faccia il loro destino, ci viene offerta una testimonianza eccezionale di amore per la vita.Morire si rivela così un'occasione per vivere con intensità mai provata prima e raggiungere la vera pienezza.
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