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La musica di Gianfrancesco Malipiero
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1990
22 maggio 1990
376 p.
9788839704443

Voce della critica


recensione di Rizzuti, A., L'Indice 1991, n. 5

La parabola artistica di Gian Francesco Malipiero s'inarca significativamente a partire da un evento memorabile, quello - datato 28 maggio 1913 - della "prima" assoluta de "La Sagra della Primavera". Il trentunenne compositore veneziano fu quella sera, al pari di molti illustri colleghi, fra i testimoni del più clamoroso tumulto della storia della musica. Nel coetaneo sanpietroburghese (costretto ad allontanarsi di nascosto da un'uscita secondaria del teatro) Malipiero non vide n‚ l'artista pazzo n‚ il selvaggio rivoluzionario, bensì l'uomo che con la sua geniale creazione gli confermava la giustezza della via da lui scelta "nel deserto veneziano". Questa affermazione si trova in una lettera che Malipiero, quasi novantenne, scrisse nel settembre del 1971 (dunque sette mesi dopo la morte di Strawinsky) a Giuseppe Pugliese; la sua importanza viene accresciuta da quanto Malipiero aggiunse qualche riga più sotto: "[è] certo che tornai a Venezia senza più dubitare sulla mia attività di musicista liberato da ogni borghesismo".
I passi riportati inquadrano con immediatezza le coordinate essenziali dell'universo malipieriano: ripudio totale e irreversibile di pensiero sinfonico, romantico e post, e di melodramma, ottocentesco ma soprattutto verista; esaltazione di primitivismo e sorgività in ogni loro manifestazione artistica; aristocratica e impietosa denuncia della situazione di stagnazione culturale dell'Italietta. Il libro di Waterhouse, sbrigata in due pagine (di numero) la formalità del profilo biografico, apre l'indagine su Malipiero con un capitolo efficacemente intitolato "Caratteristiche generali: forma mentis, ossessioni; influenze formative". La vivacità di queste pagine è il primo pregio che al pluridecennale lavoro dello studioso inglese occorre riconoscere.
Facendo leva sulle ossessioni del compositore (in realtà riconducibili a una sola, quella del rapporto col Tempo inteso e vissuto in termini più epocali che cronologici o men che meno cronometrici), Waterhouse introduce con mossa abilissima la sua: la necessità di distinguere, di esprimere giudizi di valore, di riconsegnare al silenzio degli archivi tante pagine manifestamente accessorie. L'autorità per un gesto che l'impassibile filologismo oggi trasversalmente imperante rende tanto coraggioso deriva allo studioso inglese dalla sua conoscenza della produzione musicale del Novecento Storico italiano e da un'esortazione di Massimo Mila opportunamente riportata - insieme a un entusiastico giudizio su Malipiero di Luigi Dallapiccola - in apertura di prefazione: "È ovvio che in una produzione così sterminata non può essere tutto sullo stesso piano di eccellenza... Sicché un compito immenso spetta alla futura storiografia musicale: che qualcuno si metta lì, di fronte a questa enorme massa di musica, e ne tragga un bilancio valutativo".
Ben prima che, all'indomani della morte di Malipiero (1973), Mila lanciasse il suo appello, Waterhouse si era "messo lì". La sua minuziosa analisi lo ha portato a identificare nel 'mare magnum' della produzione malipieriana una dozzina di opere da salvare senz'altro: il fatto che si tratti in stragrande maggioranza di lavori teatrali si spera contribuisca ad attizzare la fantasia di coloro che sono preposti alla gestione dei nostri sonnacchiosi enti lirici. Il teatro musicale malipieriano si fonda sul ripudio del concetto di trama, e dunque su una struttura "a pannelli" di palese ascendenza strawinskiana destinata a fare giustizia di qualsivoglia continuità drammatica. La chiarezza - e l'immodificabilità nel corso di tutto l'itinerario creativo dell'autore - dei termini del discorso la dicono lunga sull'audacia della sfida lanciata da Malipiero a centocinquant'anni di teatro musicale italiano. I risultati migliori vengono ovviamente conseguiti là dove alle proprie ossessioni Malipiero dà maggiori opportunità di sfogo; nelle "Sette Canzoni" (1918-19), in "Torneo Notturno" (1929), ne "Gli eroi di Bonaventura" (1968-69) e in "Uno dei Dieci" (1970) intorno a quelle del rapporto col Tempo e del numero 7 (spia indicativa della concezione "ricorsiva" che del tempo Malipiero aveva) si dispongono in controllato disordine le altre: Venezia, con la sua gloriosa tradizione artistica ma soprattutto civile, l'uomo con la [sua] "U" maiuscola d'eredità espressionistica ("Lui", "Lei", "il Disperato", "lo Spensierato", "la Donna", sono i personaggi più riusciti del teatro musicale malipieriano), i più antichi testi italiani, Jacopone in testa, l'attenzione maniacale per le potenzialità espressive della parola.
Un invito accorato a proseguire nella lettura si rivolge a coloro che nelle fasi più incolori della vicenda artistica del compositore (come quelle degli anni trenta e quaranta e dei primi anni sessanta) avvertono la corruttrice tentazione all'abbandono. L'estrema stagione malipieriana è dispensatrice di sorprese che risultano tanto più gradite quanto più a lungo si è sostato nelle secche dei periodi meno felici. La novità più inattesa, in un uomo che nel 1970 ("Uno dei Dieci") si autoritrarrà in Almorò Da Mula, "furibondo vegliardo che rifiuta di riconoscere e persino (apparentemente) di capire che la sua amata Serenissima non esiste più" (p. 325), è quella, modernissima, de "Gli eroi di Bonaventura" (1968), "compilation-opera" in due atti costruita per sette (!) ottavi da brani tratti da opere proprie precedenti. La solitudine di Bonaventura, che dopo aver presentato ad uno ad uno i personaggi delle sue precedenti creazioni teatrali rimane in scena da solo col grande libro aperto sulle ginocchia è emblematica del fondamentale, cosmico pessimismo di Malipiero.
Chissà se la presenza di uno spiritello-Waterhouse svolazzante fra le pareti del suo studio asolano sarebbe stato negli ultimi anni di qualche conforto a Malipiero.

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