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Anno edizione: 2005
Anno edizione: 2015
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Indispensabile testo di studio e insieme racconto avvincente della nascita della regia, non è solo un libro di testo scolastico ma un grande saggio sul teatro
Recensioni
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In questo saggio - che dopo un lungo silenzio aggiorna la bella collana laterziana di studi sullo spettacolo - Mirella Schino riesce quasi miracolosamente a riunire due generi di libro di solito incompatibili: il manuale di divulgazione universitaria su una materia canonica e ampiamente storicizzata, e il saggio specialistico che questa stessa materia illumina da nuove prospettive.
La nascita della regia teatrale costituisce un nodo storiografico assai complesso, che tradizionalmente si fa coincidere con la crisi del naturalismo e con l'avvento delle avanguardie, allineando quindi una storia e geografia di esperienze espressive accomunate dall'idea dell'autonomia della messinscena sia dal testo che dall'attore suo interprete. Ma il libro scompiglia e arricchisce il quadro riesaminando l'intera questione, con occhio innamorato, secondo una prospettiva unitaria e trasversale, interna ai fatti presi in esame ma anche strettamente contestuale alla grande vicenda culturale del Novecento. La domanda di fondo a cui l'autrice cerca di rispondere riguarda le ragioni per cui, nei primi trent'anni del secolo, il teatro - e proprio il teatro - diventi centro nevralgico e pulsante di vita nuova (una sorta di vivente utopia) nel lavoro di un pugno di individui - nell'arco più o meno di due generazioni ed entro un circuito che va dalla Francia alla Russia alla Germania alla Svizzera - accomunati da un quid di visionarietà e di slancio, che si votano all'idea di metterlo "in contatto con valori profondi, metafisici, universali, archetipici, politici".
La storia, come quasi tutte le storie teatrali, è sfuggente e labile, ma l'autrice ne rincorre le tracce attraverso una serie di memorabili eventi spettacolari, di progetti solo sognati, di teorizzazioni avventurose, di pedagogie, di scritture e di memorie legate fra loro da uno sguardo rivoluzionario. Sta in questo sguardo il fulcro del problema, "un modo nuovo di guardare una cosa sempre esistita", che fa del regista non solo lo spettatore per eccellenza privilegiato, ma una sorta di interprete profetico della realtà, capace di cogliere la vita nelle cose, di liberare energie rimescolando spazi, ritmi, corpi in composizioni organiche completamente rinnovate, che mostrano in scena una vita diversa e più intensa, come accade per tante altre epifanie novecentesche da Virginia Woolf a Einstein. Dal teatro d'arte di Stanislavskij alle sperimentazioni di Craig e di Appia, dalla rivoluzione danzata di Isadora Duncan ai balletti russi, dal futurismo a Mejerchol'd, dall'espressionismo tedesco al teatro politico di Brecht e Piscator, dalla pedagogia di Copeau alle visioni fiammeggianti di Artaud, si cerca di cogliere la peculiarità di questo sguardo, che affida al teatro, fatto per costoro di corpi, di spazi, di colori e di movimento, la possibilità di comunicare non più (come era sempre accaduto) una riproduzione più o meno fedele e convincente della realtà, bensì "autonomi frammenti di vita artificiale".
I nuovi registi (persino difficili da nominare nella lingua italiana, che li battezza come tali soltanto a cose fatte), pur nell'eterogeneità delle loro esperienze, sono accomunati dall'attitudine a decostruire i codici consueti dello spettacolo occidentale (e soprattutto del corpo dell'attore) e a ricomporli in unità organiche plasmate sul movimento e sulla danza, che riecheggiano suggestioni dell'Oriente, del circo o della commedia dell'arte, con una consapevolezza nuovissima delle potenzialità del ritmo e della luce; in tal modo essi ridefiniscono i rapporti spaziali consueti in palcoscenico, producendo un ribaltamento dell'antropocentrismo attoriale e coagulando, intorno a spettacoli visionari, rituali, politici, questa nuova, misteriosa energia. Il libro ricompone con sapienza un grande puzzle di relazioni e di scambi, svela la trama di una ricerca generosa e appassionata, in qualche modo unitaria, che trova nella Russia bolscevica il suo acme, in una coincidenza irripetibile fra estetica e rivoluzione. Da Mosca passano tutti in questi anni, e a Mosca tutti guardano: la rivoluzione teatrale che vi si vive incarna compiutamente, per una breve stagione, il sogno di una realtà nuova, ed è alla fine inesorabilmente soffocata nell'orrore della repressione staliniana proprio in ragione della sua dirompente coerenza.
Il libro, che ha fra i suoi pregi quello di una scrittura emozionante come un racconto, si apre con una serie di esordi, dove questa comune "fame di teatro" si svela carica di aspettative e di possibilità (dallÆAmleto di Craig e Stanislavskij e dalla Turandot di Vachtangov in poi), ripercorre le baldanzose esperienza pionieristiche degli anni venti e le molte soluzioni espressive che ne derivano, segue, per così dire, la maturazione e le ricadute a pioggia di questo inizio sfolgorante nel rinnovamento teatrale degli anni trenta e quaranta, e quindi si conclude con la serie (altrettanto misteriosa) dei congedi (spesso tragici o segnati dalla malattia e dalla follia), delle uscite di scena dei protagonisti. La conclusione è aperta: "quella fame di vita e di antinatura non va dimenticata. Non va neppure considerata come una eredità da trasmettere, che può perdersi o ritrovarsi. È piuttosto un carattere acquisito che di tanto in tanto affiora in quel cespuglio che è la regia: come una somiglianza".
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