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Curioso il destino di Ferruccio Parri: venerato come icona della Resistenza specie dalla generazione del Sessantotto, dopo la morte, avvenuta nel 1981, ha conosciuto l'oblio. A questa dimenticanza del primo presidente del Consiglio dell'Italia libera, sporadicamente interrotta da qualche rito di celebrazione e da tentativi di demolizione, pone rimedio questa biografia. L'autore ha infatti cercato di uscire dalla contrapposizione, della quale pare prigioniera la generazione più anziana degli storici, tra antifascismo positivo e antifascismo negativo, tra "ortodossi" e "revisionisti".
È il suo un lodevole sforzo di superare una storia recriminatoria in favore di un approccio critico, che cerchi di comprendere le ragioni - contenute fin dal titolo - della sconfitta di Parri e del Partito d'azione. Le individua nella cultura politica di Parri, nutrita di elitismo, liberismo, avversione alla prevalenza degli interessi organizzati, antisocialismo, progetto pedagogico per la nazione. Da questo punto di vista, le due grandi guerre del Novecento appaiono a Parri - si potrebbe dire leninianamente - la leva sulla quale operare per dare corso alle due rivoluzioni: prima quella antigiolittiana, poi quella antifascista. Parri è quindi racchiuso nell'antigiolittismo maturato sulle pagine della "Voce" e nel rapporto con Giuseppe Prezzolini, che gli avrebbe impedito di comprendere le specificità sia del fascismo sia, nella Resistenza, dell'affermarsi dei partiti di massa.
La prima delle tre parti del volume - incentrata sulla "rivoluzione antigiolittiana" - è anche la più riuscita. Il Parri successivo - il leader della "rivoluzione antifascista", così come lo sconfitto tessitore della nazione repubblicana - altro non è che una variazione del primo. Polese sottolinea i mutamenti sia nel rapporto con la democrazia (ancorché gli imputi una scarsa attenzione a essa come procedure condivise in favore di una visione incentrata sui valori), sia nella concezione economica, evidenziando la centralità dell'esperienza milanese degli anni trenta, sebbene il carattere anticorporativo del liberismo di Parri non venga compiutamente colto.
Il lungo filo rosso è però lo stile politico radicale, che lo accomuna ad altri azionisti politicamente attivi nel dopoguerra. È il vero elemento di divisione tra i dirigenti politici che presero parte al Partito d'azione e che nel dopoguerra spaziarono dal Pri a Democrazia proletaria: tra quanti scorsero nella faticosa costruzione democratica l'avvio di una fase evolutiva, che doveva prendere atto dei materiali effettivamente disponibili, e coloro che, al contrario, scorsero nell'egemonia della Dc un macigno insormontabile da eliminare. Gli azionisti furono accomunati dall'avversione alla democrazia trasformista - non per moralismo o per pedagogismo giacobino, ma in virtù di un'analisi storico-politica - e dalla centralità accordata al discorso nazionalitario.
Il fatto che su entrambi i piani fossero sconfitti non significa non avessero colto - a causa di una cultura politica compiutamente secolarizzata - i fondamenti della difficile democrazia italiana. Prevalsero infatti gli elementi storicamente dissociativi e venne inoltre rimosso, con il declino della religione politica fondata sulla patria, il problema della nazione, destinato, come tutte le rimozioni, a riesplodere drammaticamente nell'agonia della democrazia dei partiti.
Paolo Soddu
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