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Anno edizione: 2020
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Parafrasando Lévi-Strauss, come suggerisce Mian nella prefazione, questo libro avrebbe anche potuto intitolarsi “triste Artico”, poiché mostra, con sorprendente anticipo, ciò che è diventato chiaro oggi: che il vortice della Storia, ha risucchiato l’Artico dalla periferia del tempo e lo ha travolto.
«Viaggiare è fuggire il proprio demone familiare, distanziare la propria ombra, seminare il proprio doppio»: così Paul Morand descrive il senso di ogni autentico viaggiare.
Una massima che, in un giorno d’aprile, ha spinto SimonaVinci a raggiungere l’immenso corpo di ghiaccio sulla testa della Terra, quel gigantesco, infinitocuscino bianco di tremila metri di profondità chiamato Artico. Un luogo dove la Natura è potente e imprevedibile, dove l’isolamento è una condanna e una sfida quotidiana, dove si è in balia delle intemperie, della neve, del vento, degli animali feroci, del freddo e delle proprie paure. Un luogo apparentemente ideale per distanziarsi da sé stessi e accettare l’imprevisto qualunque esso sia, persino «quello di non sapere più di preciso chi si era prima di partire». Questo libro è il puntuale resoconto di questo viaggio, «innescato – come scrive Marzio Mian nella prefazione – dal richiamo della bellezza assoluta o dal bisogno di chiudersi nella più blindata fortezza di solitudine al mondo». È perciò la narrazione di questa bellezza, dei fiordighiacciati, delle rocce a picco sul mare dov’è possibile contemplare gli iceberg e le isole di ghiaccio. Ma è anche il racconto di un mondo in cui le etnie che lo abitano, dalla Groenlandia alla Siberia, pressate dall’avanzata della modernità, hanno abdicato ai loro modi di vita millenari.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
E’ il resoconto di un breve viaggio della Vinci nello sterminato cuscino bianco dell’Artico, in un paese di 1903 anime (Tasiilaq) in Groenlandia. Non è un viaggio di esplorazione, è una sfida con se stessa, per vedere se riuscirà a sopravvivere a un isolamento quasi totale. E’ strano come, per giungere al bianco, parta dal “nero” aprendo il romanzo con un viaggio in Sierra Leone. L’intero tomo è in realtà uno Zibaldone (scarsamente leopardiano): c’è un pizzico di Duca degli Abruzzi (spedizione al Polo Nord), di Umberto Nobile (il disastro del dirigibile Italia) e altre avventure nei ghiacci del Nord e in Siberia (per altro, eventi ampiamente raccontati su RAI-Storia). Senza dimenticare quel grande domatore dei “ghiacci” che fu Nansen, il primo che attraversò l’intera Groenlandia non con cani e slitte, ma con gli sci e 5 avventurosi, con fatiche inenarrabili. Bene a fatto a citarlo, dimenticando però la sua prodezza nei confronti dell’umanità: il passaporto Nansen, che salvò la vita a ca. 500 mila profughi sans-papier che, dopo la Prima Guerra Mondiale, vagavano alla ricerca di una nuova patria. Il “Cammello Battriano” non fa molta strada a Tasiilaq: solo una breve escursione in slitta di poche ore per affacciarsi sulla sterminata (e spaventosa) distesa bianca. Così la Vinci passa 3 settimane quasi sempre barricata in albergo e, per dar polpa alla narrazione, si trasforma in psicologa ed etnologa di questa mini-enclave Inuit. Va ricordato che Margaret Mead scrisse diversi libri (più che famosi) di etnografia di popolazioni isolate in diverse parti del mondo, ma spese anni con questi popoli e ne studiò a fondo i costumi. Rifarle il verso in 3 settimane non ha molto senso. Chiude con tre pagine di riferimenti bibliografici su viaggi esplorativi soprattutto su distese ghiacciate. Manca però il tomo più celebre: The Last Place on Earth di Roland Huntford (1999), il vertice di ogni possibile racconto su spedizioni polari. Seicento fitte pagine di ghiaccio … bollente.
Il racconto di un soggiorno solitario e destabilizzante di tre settimane in un piccolo villaggio sperduto della Groenlandia. L'autrice osserva gli inuit e scopre una realtà desolante, lontanissima da stereotipi e idealizzazioni, molto diversa da quella che immaginava. Non ho apprezzato gli intermezzi romanzati ma il libro è molto coinvolgente, riflette sulla solitudine, sull'isolamento e sul disagio sociale, spoglia la natura di qualsiasi sentimentalismo e trasforma un viaggio a lungo fantasticato in un grumo di tristezza. Non è insomma una Groenlandia da cartolina. Anzi.
Veramente un bel libro. Scritto in maniera semplice e scorrevole riesce tuttavia a strasmettere forti emozioni. Il capitolo intitolato "Senza Nome" è una piccola perla che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. Grazie per averci regalato queste emozioni. 10 e lode
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