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Una analisi lungimirante scritta nel 2006 (!) degli effetti deleteri della globalizzazione in ambito geopolitico e non solo economico. Ancora valida oggi anche se il (previsto) fallimento dell'impero americano non sta oggi avvenendo sulla spinta di dinamiche positive ma per crollo interno misto a crisi pandemica mondiale. PS: caldamente suggerita una preventiva lettura di K. Polanyi (La grande trasformazione).
Libro decisamente diviso a metà, nella prima parte si parla di economia; viene data una lettura della situazione socioeconomica di ampio respiro e decisamente fuori dal coro. La seconda parte è una lunga tirata antiamericana, dove l'autore analizza con inutile dettaglio la guerra nel Kosovo e in Iraq, deducendone che gli USA stanno portando avanti una politica imperialista in tutto il mondo: tesi decisamente non innovativa, ma portata avanti in modo un po' fazioso. Questa seconda parte è decisamente noiosa, anche perché ripercorre di fatti abbastanza noti senza darne interpretazioni innovative. L'autore poteva sintetizzare in poche pagine senza nulla perdere, ma è la tesi stessa che secondo me non regge. Sull'imperialismo vero o presunto è molto meglio leggersi E. Todd, " Dopo l'impero". Ne risulta un libro per metà interessante e per metà noiosissimo.
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Di questi tempi, gli economisti studiano le crisi economiche e finanziarie, i sociologi analizzano i mutamenti nelle dinamiche sociali, i giuristi riflettono sulle difficoltà delle istituzioni internazionali e gli studiosi di politica internazionale e di strategia si interrogano sul futuro ordine mondiale. Raramente tutti questi studiosi si rendono conto che l'oggetto dei loro sforzi è il medesimo, e cioè la situazione, non assestata e in rapida evoluzione, di questo pianeta e del complesso dei suoi abitanti. La specializzazione esasperata delle scienze umane fa sì che ciascuno insegua la propria "piccola verità" e corra il rischio di perdere di vista il quadro generale in cui le "piccole verità" interagiscono tra di loro. Trent'anni di accanimento specialistico hanno sicuramente aumentato le capacità di analisi degli studiosi, ma ne hanno probabilmente diminuito le capacità di sintesi.
La sintesi richiede robusti schemi logici, alla cui base vi sono scelte "irrazionali" di valori. Non fa meraviglia, quindi, che le sintesi siano rare in un mondo che pone al primo posto una razionalità sovente tanto esasperata quanto miope, e per di più guardate con sospetto in periodi di crisi delle ideologie; e che il risultato sia un diffuso clima di incertezza nelle previsioni e una carenza di progetti per il futuro.
È pertanto altamente significativo che una robusta sintesi sia stata tentata in parte al di fuori della dominante cultura occidentale. Ne è autore Prem Shankar Jha, la cui vita e carriera sono, in un certo modo, "sintetiche": indiano, con una prestigiosa laurea interdisciplinare europea (la cosiddetta ppe di Oxford che sfugge alle lusinghe dell'iperspecializzazione e conferisce una preparazione di fondo in filosofia, politica ed economia), Jha sfugge alle troppo precise classificazioni professionali del nostro tempo. La sua vita si muove tra diversi mondi, dal giornalismo (è stato giornalistaededitor all'"Hindustan Times", uno dei maggiori quotidiani indiani, nonché corrispondente dall'India di "The Economist") al pubblico impiego (come collaboratore del primo ministro indiano V.P. Singh), e all'accademia (ha insegnato all'Università della Virginia).
La sua opera più recente costituisce uno di quei "giri d'orizzonte" di cui sentiamo tutti di avere grande bisogno; è stata pubblicata in inglese nell'ottobre del 2006 e in italiano nella tarda primavera del 2007 da Neri Pozza. In questo passaggio, il titolo è cambiato: da The Twilight of the Nation State (Il crepuscolo dello stato nazione) si è giunti al più "giornalistico" Il caos prossimo venturo. Purtroppo non si tratta tanto di una deformazione dell'editore italiano quanto di una rapida evoluzione dello scenario politico-economico mondiale nel senso illustrato da Jha.
La sua inclinazione alla sintesi emerge anche dalla struttura del libro, che si discosta un poco da quella di un normale saggio "occidentale". L'autore, infatti, riesce ad alternare trattazioni teoriche e ricostruzioni vivaci di avvenimenti recenti con l'aggiunta di lunghe citazioni, qualche aneddoto personale e note copiose; il tutto è fuso in una trattazione leggibilissima, anche nella traduzione italiana, che non risente della lunghezza (quasi settecento pagine che avrebbero tratto grande beneficio da un indice analitico) né della vastità e difficoltà dell'argomento. Con il vantaggio non piccolo di una visione "esterna", ossia non incentrata sull'Europa o sull'Occidente.
Nella prima parte del suo libro Jha ricostruisce la storia economica mondiale degli ultimi secoli con il supporto di una costruzione logica riconducibile, in ultima analisi, a Marx; non tanto al Marx dello sfruttamento e della lotta di classe quando al Marx dei modi di produzione e dei cicli di accumulazione di capitale. Attraverso questa strada, Jha ha contratto, e li riconosce, molti debiti nei confronti di Schumpeter, dal quale deriva la concezione della tecnologia come variabile indipendente: nel suo modo di vedere sono infatti le innovazioni tecnologiche, il cui esito è sovente imprevedibile da parte di chi le introduce, a rappresentare il vero motore di cambiamento delle società.
L'altro pilastro della costruzione intellettuale di Jha poggia su Braudel, lo storico francese della "civiltà materiale" e dell'"economia-mondo", intesa come "contenitore" del capitalismo. Le varie "economie-mondo" che si susseguono tutte di dimensioni ben inferiori a quella planetaria, ma tali da organizzare coerentemente lo spazio economico attorno a un'egemonia centrale si infrangono periodicamente per dar luogo a contenitori più ampi. Passando per Braudel, Jha giunge all'"impero-mondo" di Wallerstein, ossia alla trasposizione politica dell'analisi braudeliana, e alla visione sistemica di Arrighi: il "contenitore" del capitalismo, rappresentato dallo stato nazione, è scoppiato, la sovranità economica nazionale tende a diventare un ricordo del passato. Questo passaggio viene fatto risalire ai negoziati commerciali condotti, nell'ambito del Gatt, con forti pressioni sotto l'egida americana e tesi a costituire una zona di libero scambio e di libero movimento dei capitali, di fatto sottratta al controllo dei singoli stati; essi sfociarono nella costituzione della Wto, l'organizzazione mondiale del commercio, divenuta operativa all'inizio del 1995.
Il progetto (che non ne esclude però altri successivi) di un'organizzazione complessiva dello spazio terrestre nella forma di un impero americano, sostanzialmente basato sull'egemonia e sulla coercizione, ancorché mascherata, naufraga nelle sabbie dell'Iraq. Il lettore proverà forse una certa sorpresa di fronte all'enorme importanza attribuita da Jha alle torture nel carcere di Abu Graib, che non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa tendiamo ad archiviare troppo rapidamente, ma che hanno ferito in maniera profonda e devastante la sensibilità del resto del mondo.
Dietro a questo naufragio c'è solo un disordine con poche speranze che già Eric Hobsbawm (che firma la presentazione di questo libro) aveva previsto nel suo Il secolo breve: il "secolo breve" viene seguito da un brevissimo "secolo americano", con una risposta terroristica di inaspettata efficacia e ferocia al tentativo americano di dominio mondiale in una sempre più dura, anche se poco manifesta, erosione delle libertà democratiche che fanno degli Stati Uniti uno "stato orwelliano". L'"ordine westfaliano", che aveva portato alla separazione tra stato e chiesa, e sancito il principio del predominio di ciascuno stato sul proprio territorio e dell'uguaglianza internazionale tra i diversi stati. Una nuova barbarie (anche se Jha non usa questo termine e preferisce appoggiarsi al concetto di "caos sistemico", seguendo Arrighi) sembra impadronirsi del pianeta. L'ultimo capitolo, dal titolo Verso l'oscurità, ripercorre con precisione giornalistica e con brillante e angosciante scrittura fatti e situazioni che abbiamo vissuto e dei quali troppo rapidamente abbiamo voluto dimenticarci.
Il sistema di stati nazione sovrani e indipendenti sarà, secondo Jha, inevitabilmente sostituito da un sistema politico singolo e integrato, ma il modo di questa sostituzione gli appare cruciale: il mondo avrebbe raggiunto un "bivio" nel 2005, quando divenne evidente l'incapacità degli Stati Uniti di raggiungere i propri fini in Iraq. Una strada conduce a un impero "costruito sulla forza e sostenuto dalla paranoia" e l'altra conduce a un Commonwealth, ossia "un governo per il 'bene comune' basato sul consenso". È in un certo senso singolare che Jha, cittadino di un paese del Commonwealth, trovi una soluzione in questa formula politica (per la verità, di tenue successo), ideata per raccattare i cocci di un impero britannico ormai spezzato, e ancor più che in tutto ciò faccia capolino un concetto come il "bene comune", elaborato in ambito cattolico. Se però si accetta, con Jha, che l'integrazione planetaria sia inevitabile, non deve stupire che essa implichi un sincretismo di concetti e di metodi.
Si può, naturalmente, dissentire da Jha. Per far questo bisogna però chiamarne in causa le premesse, in quanto sarebbe assai difficile fare breccia nelle ferree maglie delle sue argomentazioni; e bisognerebbe scrivere un altro libro per dar vita a un dibattito costruttivo. Mario Deaglio
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