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Cala il silenzio totale, del governo, dei partiti, dell’opinione pubblica sulla morte di un ragazzo italiano.
«Non ci sarà mai una piazza, una strada, una biblioteca intitolata a Giovanni Lo Porto. Non può esserci. Perché questo ragazzo è colpevole. Colpevole di aver resistito, restando vivo, alla violenza dei suoi sequestratori, i cattivi del copione, di non essersi sacrificato educatamente a recitare la parte della vittima del Male assoluto del nostro tempo. E quindi confermando le parti che spettano a ognuno. È colpevole di esser rimasto a metà, vivo fino a quando la bomba del terrorismo dei ricchi non lo ha eliminato. Giovanni è colpevole di non esser morto prima. Perché comunque doveva morire»
Il 23 aprile 2015 Barack Obama, in qualità di presidente e Commander in Chief degli Stati Uniti d’America, annuncia al mondo intero l’uccisione di Giovanni Lo Porto, il giovane cooperante italiano, per opera di un drone statunitense sul confine tra Afghanistan e Pakistan. Il giorno dopo il ministro degli esteri italiano illustra le presunte circostanze di quell’assassinio a un’aula del Parlamento completamente vuota. Qualche anno dopo la magistratura italiana dispone l’archiviazione delle indagini sulle reali cause del decesso di Lo Porto per assenza di collaborazione da parte delle autorità americane. Perché scrivere un libro su un delitto in cui si sa il nome dell’assassino? si chiede Domenico Quirico in apertura di queste pagine. A quale scopo, visto che il reo confesso è il primo presidente nero degli Stati Uniti, il paese che ha proclamato il diritto alla felicità? Un uomo così abile a sciorinare le sue virtù teologali e democratiche da ricevere il premio Nobel per la Pace? Domenico Quirico non ha mai incontrato di persona Giovanni Lo Porto. Ma lo unisce a lui qualcosa che è più di una stretta di mano o un sorriso di reciproca stima. Lo unisce il tempo, incomunicabile, del prigioniero, il fatto di sapere che oltre una certa soglia non c’è più niente da dire, che occorre soltanto stringere i denti con violenza. Lo unisce, insomma, il dolore che gli consente davvero, in queste struggenti pagine, di alzare la voce contro l’ingiustizia della sua morte e chiedere la punizione del Colpevole.
«Questa storia bisogna ascoltarla non come i bambini le favole, a occhi chiusi. Fa male, gli occhi devono essere spalancati». Un libro che morde il cuore, con l’inchiostro, con la ragione, con l’indignazione e una sottile forma di identificazione. Pagine che contengono riflessioni indicibili, difficili da immaginare se l’autore, Domenico Quirico, non avesse condiviso parzialmente – in altro tempo, in altro luogo – il destino del palermitano Giovanni Lo Porto, rapito in Pakistan da miliziani di Al-Qaida nel gennaio 2012 e morto accidentalmente tre anni dopo, nel corso di un’operazione americana con i droni, il cui obiettivo era un compound jihadista. «Lo uccidono coloro che devono salvarlo», scrive Quirico, ex reporter di guerra («che ingenuamente o con troppa arroganza avevo immaginato di poter domare con le parole?»), che punta il dito contro il reo confesso, Barack Obama, e tutto ciò che rappresenta, anche contro il premier italiano dell’epoca, Matteo Renzi, non per le condoglianze alla famiglia, ma per «la spazzatura politica» e «la miseria» di mettersi in guardia contro le stoccate dell’opposizione e di difendere comunque l’alleato statunitense.
La tragica fine dell’operatore umanitario palermitano Giovanni Lo Porto è il cuore di Morte di un ragazzo italiano. In memoria di Giovanni Lo Porto (158 pagine, 12,50 euro), pubblicato dall’editore Neri Pozza. Quello di Quirico è un urlo contro imprenditori e teorici del realismo politico, per cui le vite umane sono numeri, contro il sostanziale silenzio della politica italiana sulla vicenda. Sulla morte atroce del cooperante cresciuto nel quartiere Sperone, che lavorava per una ong tedesca aiutando i pakistani colpiti da inondazioni, non è stata ancora fatta luce. Lo scorso marzo, i legali della famiglia hanno ottenuto il rigetto della richiesta di archiviazione, e sono state disposte indagini suppletive. La rogatoria internazionale dei pm era finita sul muro di gomma del Dipartimento di Giustizia degli Usa, che non fornì informazioni, non volendo pregiudicare «la sicurezza o altri interessi pubblici essenziali».
Quando Quirico – che scrive per La Stampa e oggi è responsabile degli Esteri per il quotidiano di Torino – incontra la madre di Giovanni Lo Porto («Questa Niobe del nostro tempo») e il suo infinito strazio, è stato liberato solo da qualche settimana, dopo una prigionia di cinque mesi in Siria, nel 2013. Quando incontra Giusi Lo Bianco, nel quartiere Sperone di Palermo, è ancora possibile pensare alla liberazione del ragazzo poliglotta, che aveva studiato a Londra e aveva in tasca tre lauree. È un dialogo singolare, di cose dette e di altre omesse, quest’ultime a proposito di umanità a certe latitudini («Potrei dirle… i fanatici non sono più uomini, forse non lo sono mai stati… è gente che sa uccidere… sanno cavarti da dentro ogni goccia di dolore»). È un incontro da cui nasce la scelta di Quirico di «rifare il cammino di Giovanni», a cominciare da Multan, la città in cui fa rapito Giovanni Lo Porto, e mettersi sulle tracce di Ahmed Farouq, piccolo apostolo di Bin Laden, jihadista di passaporto americano. «Sono qui per un’inchiesta privata, sono qui per me stesso. E mi rendo conto che questo modifica completamente lo sguardo che poso su cose e persone, perfino la paura o l’ansia per quello che può succedermi».
È un viaggio al termine di una notte interiore, per Quirico, che incontra terroristi e un ex agente speciale, e giunge a una piena consapevolezza («americani e terroristi hanno commesso in fondo un delitto insieme, si sono mescolati nell’immolare il sangue di un Giusto!») e a un fortissimo sospetto: i miliziani non volevano denaro, ma informazioni in cambio della vita dell’ostaggio palermitano. Stesse circostanze, scoprirà, cucite addosso al suo sequestro. Poi torna a Palermo dalla madre di Giovanni Lo Porto con frammenti di verità e dettagli forse trascurabili: il ragazzo ucciso per sbaglio dai droni era – amarissimo constatarlo – il piccolo ingranaggio di un grande gioco cinico e melmoso. Domenico Quirico ha scritto un libretto tutt’altro che consolatorio. Spiega definitivamente che «il tempo non guarisce tutte le ferite».
Recensione di Salvatore Lo Iacono
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