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Quando scoppiò, il 12 luglio 2006, non era una guerra né doveva diventarlo. Soprattutto in Israele nessuno doveva definirla tale. Perché, come spiegarono dopo i vertici politici e militari, se una guerra la fai e la vinci, devi pagare i danni. In quella che comunque è passata alla storia come seconda guerra del Libano, o guerra d'estate, ci furono però gli errori, l'approssimazione, il cinismo dei politici, l'arroganza dei militari. Ci furono i morti e le distruzioni. Come in ogni conflitto. Bisognava recuperare due soldati rapiti dai guerriglieri hezbollah libanesi infiltratisi in Israele.
Invece, dopo trentacinque giorni di combattimenti, di bombardamenti dei centri abitati, i due soldati israeliani non solo non furono liberati, ma oltre un centinaio persero la vita e con loro millecinquecento libanesi, in larga parte civili. I danni furono calcolati in decine di milioni di euro e i vertici israeliani finirono sotto accusa.
Ma come ricostruire un conflitto di cui non è chiara la dinamica e neppure l'esito finale? Come spiegare che cosa significhi vivere perennemente con le armi in pugno?
Luca Del Re, da sedici anni inviato di guerra, di ogni guerra, racconta quei giorni da dietro le linee dell'esercito con la stella di David. Scrive di un popolo catapultato dalla notte al giorno nell'ennesima tragedia forse solo apparentemente inaspettata. Riferisce di un rischio sottovalutato, di una reazione spropositata, di un mezzo inganno perpetrato a decine di migliaia di soldati.
La sua è la testimonianza appassionata e disperata di uno «scriba», un giornalista televisivo, che ha vissuto il conflitto accanto alle donne e agli uomini di quella terra martoriata. Che ha saputo descrivere il dolore e l'angoscia, da una parte e dall'altra del confine, di quei giorni. Lo strazio per le vittime e la folle ineluttabilità di una condizione di guerra eterna. Le guerre non sono tutte uguali. Non devono diventarlo, perché ogni morto lascia un vuoto diverso, cambia per sempre la vita di chi gli è stato vicino, come scrive David Grossman nella lettera qui riportata integralmente al figlio Uri, caduto nell'ultimo giorno di quella maledetta guerra d'estate. Una guerra che non ha portato a niente. Una guerra dentro la guerra. Una guerra che non si doveva chiamare guerra.
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