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Alto da Vigia come un sasso scagliato contro uno specchio che si infrange in mille pezzi. Ogni minuscola porzione riflette un sedimento del passato disobbediente alla coerenza. Bagliori di ricordi che appaiono, scompaiono, continuano a tornare ora febbrili, ora pacati, poi allucinati… Nessuna possibilità di un ordine a questi frammenti. Nulla sarebbe più falso dell’immagine che si potrebbe ricomporre. Leggo per la prima volta di una memoria che non è riassetto, omaggio grato alle origini, ma accumulo di neoplasie da sconfiggere attraverso un flusso inarrestabile e sovversivo, eccitato, avvelenato dal rimpianto e dalla nostalgia. Nel medesimo tormento, tenerezza e nodi di risentimento, radici di dolori da estirpare. C’è tutta la vita, e tutto della vita, in questa perdita, tra le macerie di una demolizione imminente. Bisogna esporsi a questo caos sismico emozionale, ispirato; e bisogna prestare un orecchio attento all’eco delle sue voci domestiche in rivolta, sbilenche e limpide, sovrapposte; per essere trascinati attraverso gli interminabili falsipiani dei ricordi scomposti, dei sentimenti corrosivi e mutevoli. Una lettura metrica, a suo modo, di una malinconia lacerante e disarmante.
La storia si sviluppa nel breve lasso di un weekend di agosto. Una donna fa ritorno, da sola, nella casa delle vacanze della sua infanzia prima di consegnare le chiavi ai nuovi proprietari. Le basta rivedere quel luogo per rivivere tutto. È un viaggio doloroso attraverso i suoi ricordi. Un lungo flusso di coscienza minuzioso. Voci, gesti, risate, silenzi, sguardi, paure, ansie, c'é tutto. La scrittura è magnetica. È un romanzo costruito in maniera eccezionale. Il lettore s'affatica, deve (ri)prendere fiato, eppure non ne può fare a meno, fino alla fine.
Recensioni
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Il lungo addio e i sogni sepolti di Lobo Antunes
Quando il prossimo ottobre, o meglio il successivo, o ancora quello dopo, dalla Svezia (l’Accademia scandinava ha qualche problema da risolvere e ha annunciato il rinvio della premiazione del 2018…) arriverà un ennesimo riconoscimento per l’ex medico psichiatra António Lobo Antunes, si assisterà al solito profluvio di articolesse per dirci quanto è fantastico questo scrittore, che però in Italia non è mai stato “lanciato” adeguatamente, dai media, almeno presso il pubblico dei cosiddetti “lettori forti”.
È passata la semplice “vulgata” che i suoi siano romanzi complessi a livello di lingua e struttura, giganteschi intrecci di parole e idee, belli sì ma destinati a un ristrettissimo nugolo di eletti. Concetti fuorvianti. I romanzi di questo scrittore portoghese sono carichi di sentimenti e pulsioni, ossessioni, inquietudini e punti di vista, di polifonie e metafore, di lunghi monologhi interiori, di una prosa che riesce a estenuare il lettore, di punteggiatura fuori dall’ordinario, di narrazioni intricate e frammentarie che lo mettono al tappeto, ma che gli permettono di pensare, ragionare, identificarsi (senza necessariamente aver partecipato, come medico per più di due anni, alla guerra coloniale in Angola, uno dei fulcri dell’opera di Lobo Antunes); scandagliano la mente e l’anima dell’uomo, raccontano un Paese, il Portogallo, e le sue lacerazioni e i guasti del potere, che potrebbero anche essere quelli di moltissimi angoli del pianeta. Il ragazzo cresciuto a Benfica, quartiere popolare di Lisbona, divenuto psichiatra e poi scrittore spietato e tenero, ha un catalogo vasto, ricco e tutto da scoprire. Uno dei pochissimi campioni della letteratura mondiale (tra i viventi uno capace di reggere tranquillamente il confronto con i grandi americani ed europei) che la casa editrice Einaudi si è lasciata sfuggire dopo pochi titoli e che Feltrinelli ha intelligentemente acquisito, sebbene proponga solo il suo libro più famoso, In culo al mondo, in edizione tascabile. Sarebbe tempo di estendere lo stesso trattamento – rischiare un po’ – ai tanti libri in catalogo, senza aspettare un eventuale Nobel.
L’opera più recente della straordinaria carriera di Lobo Antunes è Non è mezzanotte chi vuole (410 pagine, 22 euro), la cui edizione lusitana originale risale al 2012 e quella italiana, di Feltrinelli, a qualche mese fa. La traduzione di Vittoria Martinetto, docente di letteratura spagnola all’università di Torino, è bella, perché è una sfida vera, e permette ai lettori di immergersi totalmente in questo romanzo, gli dà gli strumenti per decifrarlo, per leggerlo senza preconcetti, per trovare l’empatia indispensabile per non arrendersi nella lettura. Elementi e figure sono abbastanza tipici dell’immaginario di Lobo Antunes. La protagonista senza nome è una ultracinquantenne, separata, operata per un tumore al seno, sorella minore di tre fratelli (uno suicida, uno tornato dall’Angola in preda a uno stress post-traumatico, un altro sordo), che passa un fine settimana dell’agosto 2011 nella casa in cui trascorreva le vacanze da bambina, a Peniche, un piccolo centro di fronte all’Oceano. Quei luoghi le rievocano ricordi, episodi e amicizie dell’infanzia, l’alcolismo del padre, i problemi mentali della madre, senza alcuno svolgimento cronologico. Emergono sentimenti e pensieri, gli spettri di una vita, che si stagliano su tutto. E che non riguardano certo solo quella donna di mezza età, ma chiunque, dallo scrittore del romanzo, decisamente più anziano, al lettore, potenzialmente molto più giovane.
Non c’è speranza nell’addio di una donna a gran parte della sua vita, al matrimonio fallito (vive adesso una relazione con un’altra donna), al figlio perduto, agli amici smarriti, a una famiglia dispersa nel tempo e nello spazio, ai ricordi d’infanzia che si fondono col passato più recente. Non c’è consolazione, eppure dal passato arrivano anche immagini bellissime, sovrapposte l’una all’altra che sbucano dall’apparente nebulosa testuale. Ci sono sogni sepolti, c’è sofferenza, una sofferenza che per la donna sembra non finire mai. E a cui, a un certo punto, pensa se non sia il caso di porvi fine. Nelle stanze vuote di quelle case disabitate, nella disperazione di chi ci ha passato pezzi di vita, c’è da perdersi o ritrovarsi. Uno di quei casi in cui la parola “capolavoro” non è vuota di significato, anzi.
Recensione di Giovanni Leti
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