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Anno edizione: 1996
Anno edizione: 2007
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L'ho letto di mia spontanea volontà quando ero al liceo (diversi anni fa) e mi era paiciuto tanto anche per la semplicità con cui erano esposti i fatti. All'epoca avevo ovviamente meno conoscenze sul periodo rispetto ad ora ma ciò non ha pregiudicato la lettura.
ECCEZIONALE. Non avevo mai letto qualcosa di più bello.
come ho già scritto per altri libri da me letti... molto belli, vicinissimi a storie da me sentite e in parte vissute da conoscenti e parenti grazie
Recensioni
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recensione di Coletti, V., L'Indice 1997, n. 1
Come era facile prevedere, Giampaolo Pansa ha continuato la sua rivisitazione della nostra storia recente con un terzo romanzo, "I nostri giorni proibiti". Il giovane Marco, figlio di un ex capo partigiano assassinato misteriosamente nel dopoguerra, cerca nel passato del padre il volto e le ragioni del suo assassinio e trova le contraddizioni della lotta partigiana, le brutture e le violenze che sono in tutte le guerre e in tutti i campi quando la ferocia e l'odio spadroneggiano. A saldare nel privato i conti pubblici che il racconto vuole riaprire, Marco incontra il probabile (plausibile) assassino del padre, una giovane donna, figlia di una spia uccisa dai partigiani; e se ne innamora. Tra i due si rinnova e compie così il contorto sentimento nato nei giorni della disperazione tra la donna stessa, oltraggiata dalla vendetta partigiana, e il padre del ragazzo. Inevitabile allora che l'intenso e romantico amore, per continuare, chieda che sia dimenticato il terribile passato di cui i due protagonisti sono vittime ed eredi, stendendo su di esso (sulla crudeltà e violenza di tutti e specie su quella degli amici, dei compagni, dei "nostri") quel velo di pietà, che invece il romanzo alza scavando inflessibile nel dolore e nelle vergogne da cui - non meno che dalla generosità e dall'onore - è nata la libertà repubblicana.
È singolare che il cronista Pansa, che affronta gagliardamente il nostro presente in prima persona, debba nascondersi in personaggi assai letterari per rivisitare il nostro passato e si esplori e confessi in queste vesti molto più di quanto non si esibisca in quelle, all'apparenza più esposte e dirette, di giornalista. Tra l'aggressivo condirettore dell'"Espresso" (giornale pubblicizzato persino nel libro!), in prima fila nel drastico giustizialismo contemporaneo, e il perplesso giovane Marco del romanzo, che cerca e impara che non si può trovare la linea esatta che divide il bene dal male, i buoni dai cattivi, c'è uno iato che non mi so spiegare. Che, per avere una spiegazione, occorra aspettare un altro romanzo del Pansa narratore o un nuovo libro del Pansa giornalista?
Il racconto della storia italiana (in questo caso degli ultimi, si fa per dire, centocinquant'anni) in forma di romanzo è in "Cuore di pietra" di Sebastiano Vassalli. Ne è protagonista una casa in una città di provincia dell'alta Italia, dei cui proprietari e inquilini Vassalli ricostruisce per sommi capi l'esistenza, a partire da quando la casa nacque come villa padronale fino al suo squallido abbandono ai nostri giorni.
L'operazione narrativa, va detto, non convince; persino meno di quella storiografica, che rilegge le vicende italiane, anche le più tragiche, in chiave deliberatamente tragicomica e farsesca. Il tentativo di adattare il vetusto romanzo storico a narrare storie non di personaggi maiuscoli, ma della folla dei minimi è di per sé un progetto interessante, che conta nel Novecento europeo alcuni capolavori e, di recente, può vantare in Italia l'ottima serie di "Vite di uomini non illustri" di Giuseppe Pontiggia. Vassalli ci ha provato, delegando a una casa il ruolo di contenitore e protagonista, a fronte del quale tutti i personaggi sprofondano nell'anonimato e nell'insignificanza di esistenze secondarie e irrilevanti. Ma l'operazione è minata dalla presenza di un narratore troppo ingombrante e vistoso, che prende sempre la parola e racconta la storia della "nostra casa" (come dice cento volte) con un'ironia greve e incompatibile col progetto narrativo prescelto. Così ingiustificata, che Vassalli sente il bisogno di spiegarla fabbricando una fasulla cornice al romanzo, in cui appaiono addirittura gli dèi che ridono degli uomini e della vacuità della loro vita. La chiave così esibita (per cui lo stile dell'opera sarebbe come l'eco della voce e delle risate che scendono da un nostrano Olimpo) dovrebbe dar ragione della forma della scrittura e della qualità dei giudizi (politici, culturali, di costume...). Duole dire che né l'una né l'altra sono all'altezza della fama del loro autore.
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