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recensione di D'Agostini, F., L'Indice 1996, n. 5
A un certo punto del libro, nel racconto che è forse il meno riuscito, ma il più rivelatore dello sfondo entro il quale si muovono il pensiero e la sensibilità di Maria Chiappelli - scomparsa nel 1961 - si legge: "Pensai: essere donna. Questo pensiero non aveva seguito, non si sviluppava in idee".
Vero. L'autoconsapevolezza "sono una donna" non ha consequenzialità, destino, sviluppo. Sono una donna: et alors? Nulla consegue, solo un confuso accumulo di ipotesi e ingiunzioni per lo più generiche sull'amare, il far figli, il nutrire, l'allevare, il sedurre. Tutte comunque rigorosamente opzionali. Sono una donna ma potrei comportarmi come se non lo fossi. Il problema del femminile è tutto qui: non si vede quale necessità leghi l'essere morfologicamente in un certo modo e un certo numero di comportamenti detti "femminili". È ovvio, ci sono necessità ormonali: una circostanziata languidezza che all'improvviso si fa strada nel corpo e nel cuore delle donne più fredde e cerebrali quando aspettano un figlio, per non parlare delle sindromi lunari e premestruali. Ma può ridursi a questo la differenza che nello spirito distingue una donna?
Giustamente Adriana Cavarero, Rosi Braidotti e altre pensatrici della differenza rispondono: sì, anzitutto a questo. Perché è la carne, la solitudine e la sofferenza dei corpi, il nutrire e il patire, ciò che fa la differenza del femminile, e se qualcosa consegue all'essere donna è anzitutto e soprattutto la dignità dell'essere ancora cosa, corpo, e tuttavia pensare.
Nei racconti autobiografici di Maria Chiappelli l'infecondità del pensiero "essere donna" non ricade sull'evidenza del corpo, ma va altrove, in un'idea del femminile che noi riconosciamo subito politica. Essere donna, scrive, le appare "come una ridente innocenza, un'ansia di dare, di divenir necessaria, di rimanere nascosta". Eccole così assegnato un destino di secondarietà: quanto di più normale, per una donna negli anni venti-trenta. Ma è un destino ambiguo. Il "desiderio di dare" è anche desiderio di potere, di controllare e dominare rendendosi "necessari", dominare nell'ombra: regola unica del segreto e serpeggiante matriarcato che ha guidato a lungo la nostra storia. Nella sua versione più romantica, questo bisogno di potere si esprime nel coltivare, con lena, l'inganno affettivo nei rapporti di coppia, ciò che l'autrice stessa, con un'illuminazione improvvisa, chiama "la meravigliosa menzogna: te sola", assurdo primato che incoraggia e sostiene lo stile monogamico.
In Maria Chiappelli, nella sua scrittura che non conosce freddezza, calcolo, distanza, se non in una sobrietà che - lo si avverte con precisione - le è naturale (è nel suo contegno di donna alta, magra ed elegante, come la descrive Ginevra Bompiani nell'introduzione), questa configurazione ambigua si rivela in tutta evidenza e diviene tensione emotiva irrisolta, fortissima. Infinitamente distante dal pensiero della differenza, l'autrice ne sfiora e ne svolge continuamente le conclusioni, perché quel che è narrato, nei racconti di questo libro (particolarmente belli sono quelli sul terzo figlio, Max, il più piccolo), è precisamente il mondo dei corpi da curare, amare, nutrire, mondo materno di felicità ansiose e trattenute. Ed è narrato, anche, l'irrecuperabile dolore dei corpi che muoiono prima che sia giunto il tempo del loro decadimento, con atto di violenza della Natura contro la Specie.
Ginevra Bompiani ci informa che un gesto di rabbia e insieme di pietà ha deciso la prima pubblicazione di questo libro, nel 1940. L'editore ne lesse alcune pagine alla moglie incinta, "e lei, che si stava spazzolando i capelli prima di coricarsi, gli scaraventò la spazzola addosso. Il libro andò in stampa". Le pagine in questione riguardavano la morte di un bambino, il secondo figlio dell'autrice.
Si può narrare una "cosa" come questa (l'espressione è testuale)? Maria Chiappelli si spinge a farlo. Narra anche la stravaganza di un amore che disperatamente, volendo dire di sì a tutto, a tutto l'essere di un altro essere umano, dice di sì anche alla sua morte. Ma il rapporto tra vita e morte in qualche modo si sconvolge: "L'unica felicità che io conosca, l'ho provata nei tre giorni immediatamente successivi alla morte del mio bambino". Non c'è ragione di non crederle, e certamente si può parlare di qualcosa come una Provvidenza, ma per crederle laicamente occorre sapersi collocare in una terra di nessuno: tra la letteratura e il grido.
Qui è certo il punto più "tagliente" del libro, l'estrema testimonianza di un dolore che si rovescia nel proprio opposto: come se la Madre, istanza attraversata dalla lotta tra la Natura e la Specie, abbia deciso per l'ineluttabile, e per la crudeltà della Natura. Un gesto tristemente hegeliano, troppo concettuale ed esatto per essere vero: infatti dura solo lo spazio di tre giorni, e dopo il dolore dell'accaduto, in tutta la sua insensata ovvietà, sopraggiunge. Ma per quei tre giorni l'amore della madre è diventato piuttosto simile all'amore di Dio: un Dio che è da pensare come un grande incondizionato Sì nascosto da qualche parte, nell'universo.
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