Oltre Babilonia

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08/09/2018 10:14:55
Lei scrive molto bene, ma nonostante questo l'ho trovato molto frammentario, forse troppo corale.
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01/04/2010 09:10:51
spontaneo, emozionante; per temi e linguaggio un testo molto duro, a volte assolutamente insopportabile, come deve essere, viste le storie che descrive. Ma anche un libro con pagine commoventi e di grande poesia. al racconto della tragedia del popolo somalo e di quello argentino si intrecciano storie personali di un mondo che a noi può sembrare molto lontano, quasi di favola, ma dove l'umanità (e disumanità) dei personaggi è tanto vicina a noi. La cosa più bella: scoprire che giovani generazioni di così grande sensibilità e con tante storie da raccontare hanno scelto il nostro paese e usano la nostra lingua, ne fanno tesoro e la sanno arricchire in modo magistrale.

Alla sua seconda prova narrativa, Igiaba Scego, nata a Roma nel 1974 da genitori somali rifugiati in Italia in seguito al colpo di stato di Siad Barre, prolifica autrice di libri per ragazzi, di narrativa breve e collaborazioni per varie testate giornalistiche tra cui "Internazionale" e "l'Unità", ci dà, con Oltre Babilonia, un'opera matura e convincente. Due i punti di forza principali: l'intreccio multiplo e mobile, affollato di storie e personaggi, che collega continenti e scenari diversi, Italia, Somalia, Argentina, Tunisia, e soprattutto il linguaggio, "mescolato" e spumeggiante, ricco di contaminazioni e di invenzioni. Le voci narranti sono quelle dei cinque protagonisti due giovani donne, le loro madri, un padre che, nell'impossibilità di farlo a voce, si narrano l'un l'altro storie di perdita e di dolore. Le due ragazze si sono conosciute a Tunisi a un corso di arabo per stranieri, ignorano di essere sorelle, e hanno presto familiarizzato: Zuhra, l'inquieta "negropolitana", è romana, fa la commessa in un megastore di dischi ed è figlia di una somala ex alcolista, Maryam, detta la "Pessottimista"; l'altra è Mar, detta "Nus-nus", in somalo "mezza e mezza", figlia di Miranda, argentina, soprannominata la "Reaparecida", sta scrivendo la tesi di dottorato su Peter Sellers e la sua compagna è morta da poco suicida; l'uomo, Elias, è un somalo, ex sarto fantasioso, costretto all'esilio per motivi politici e "padre mancato" per ambedue le figlie, la prima abbandonata alla nascita, l'altra mai conosciuta.
Nel suo lungo monologo rivolto a Zuhra, Elias cerca di venire a capo della sua vita, ma perde presto il filo e le narra la storia dei suoi genitori, ripercorrendo varie fasi della storia somala. Anche le madri cercano, con difficoltà, di raccontare alle figlie una storia che non è solo la loro, ma faticano a trovare le parole o la voce, e lo fanno una in forma scritta, l'altra attraverso cassette registrate che rievocano il passato doloroso, le fughe, lo spaesamento, i sogni infranti, le umiliazioni, la rabbia. Le voci appaiono ben differenziate (alcune parlano in prima persona, altre attraverso un filtro narrativo), mettendo a nudo fragilità, insicurezze, ricordi traumatici difficili da dimenticare.
L'intreccio vorticoso di Oltre Babilonia cattura il lettore come un romanzo ottocentesco, in cui i legami tra i personaggi si svelano via via attraverso digressioni e dilazioni. Le storie si inseguono, si intersecano, si allontanano nel tempo e nello spazio per comporre alla fine un quadro complesso ed emotivamente forte dell'umanità che abita il mondo di oggi, quello fatto di emigrati, rifugiati, esuli, meticci. Il linguaggio, intensamente femminile, mette al centro l'esperienza del corpo della donna, la sua sessualità, le violenze subite, le sue ferite e i suoi umori, sangue mestruale e lacrime, nascite e morti. Se le madri sopravvissute a guerre e dittature che dilaniano i paesi di provenienza fanno fatica a staccarsi dal loro passato e vivono portando in faccia i segni di un dolore che non vuole scomparire, le figlie vivono nel presente pienamente inserite nella realtà urbana. È per questo che madri e figlie hanno difficoltà a trovare un linguaggio comune. Una difficoltà risolta, sul piano narrativo, attraverso i monologhi con cui Igiaba Scego inscena il dialogo tre le generazioni, impossibile nella realtà, consentendo così alle figlie il recupero di un'identità perduta o mai conosciuta.
In un capitolo finale, Zuhra, per molti aspetti alter ego della scrittrice, riflette sulla sua doppia identità linguistica, il somalo, lingua madre "spumosa, scostante, ardita", che conosce solo dalla bocca di sua madre, su cui la sua lingua incespica, e l'italiano, l'altra madre con cui è cresciuta, a scuola e in strada, che la fa a volte sentire straniera, ma è l'unica a permetterle di "tirare fuori l'anima". L'intera storia narra anche le conquiste di questa doppia lingua, il cui punto di arrivo è il parto metaforico del romanzo che leggiamo, una storia di metamorfosi, di nuovi approdi e di nuovi linguaggi. Perché la storia narrata vuole andare oltre il trauma, oltre Babilonia, come indica il titolo che rinvia alla Babele biblica e a Bob Marley, ma soprattutto alla babele indistinta di suoni e codici urbani. Un intenso ritratto di Roma emerge da queste pagine, che ne ridisegnano non solo la mappa odierna e l'intrico di strade e vicoli prossimi alla stazione Termini, ma anche quella degli anni settanta, gli anni di piombo, quando Roma cominciava a riempirsi di esuli argentini e di somali in fuga.
Paola Splendore
