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Non si può immaginare una sola pagina dello scrittore ceco Bohumil Hrabal che non sia una forma di resistenza al potere. La sua non è una narrativa di esplicita denuncia, non è nemmeno una scaltra costruzione di un'antirealtà riscattata e libera. Nella sua molteplice e pluridecennale produzione, spesso poco definibile secondo i canoni letterari tradizionali, si schiude un'arruffata confusione di significati solo apparentemente senza direzione, che è mescolanza di cultura alta e bassa, di speculazione filosofica e sfacciata trivialità, che è sfasamento temporale, incontro di memoria storica e personalissimi ricordi. È convivenza di personaggi leggendari e bizzarri vicini di casa, di lavoro, di osteria, è quotidiana resistenza alla sovrabbondanza di senso, di rigore causale, di univoche certezze che il potere tende a elargire a chi potere non ne ha.
E del potere Hrabal ha conosciuto tutte le manifestazioni del XX secolo, per esperienza vissuta o per trasmissione di memoria collettiva. Nato nel 1914 sotto il morente impero asburgico, ha attraversato l'epoca del protettorato nazista, poi del totalitarismo comunista, temperato dalla breve Primavera e rincrudito dalla normalizzazione, fino al più generoso, ma anche più subdolo dei poteri, quello di una libertà improvvisa e indefinita. Un potere a cui Hrabal, infine, non è sopravvissuto e non solo per motivi anagrafici. Lo scrittore morì suicida il 3 febbraio 1997, lanciandosi dal quinto piano dell'ospedale dove era ricoverato. Probabilmente per tacitare voci polemiche ed evitare inchieste, i medici dissero che era caduto accidentalmente mentre dava del cibo ai colombi. Susanna Roth, saggista e amica personale di Hrabal, denunciò su "Literární noviny" quest'ultima censura imposta non più alle parole ma alla vita stessa di un personaggio a lungo scomodo.
Il dato biografico, anche nella tragicità della morte, non è mai accidentale nella storia e nella produzione dello scrittore. Il suo contrasto vivo e fluente alle leggi della banalizzazione si dipana come rilettura personale di eventi storici fedelmente rievocati, spudorate dichiarazioni di intenti poetici e immaginari dialoghi con lettori infuriati, dolci memorie familiari e affreschi corali di mondi perduti ma ancora viventi. Tutto questo si trova in ciò che ha pubblicato presso case editrici ufficiali e nella forma del samizdat, pubblicazioni in proprio e clandestine, che girarono a lungo in territorio sovietizzato. Ma anche in ciò che nel tempo ha mutato versione per opera dello stesso autore o per imposizione censoria, in ciò che è andato fisicamente distrutto (nel 1970 la raccolta Poupata fu ritirata dal commercio e mandata al macero) e in ciò che si è perso definitivamente fra le carte composte in gran fretta inventiva alla birreria U zlatého Tigra.
Sergio Corduas, curatore del volume di opere scelte insieme ad Annalisa Cosentino, tenta di porre ordine a questa vasta e indomabile produzione usando il metro della competenza e dell'amore, come egli stesso dichiara nella nota all'edizione. La competenza impone che vengano riproposte le opere già conosciute e apprezzate in Italia, sebbene in traduzioni nuove o rivisitate. Si tratta in particolare della ballata Una solitudine troppo rumorosa e dei romanzi Ho servito il re d'Inghilterra e Treni strettamente sorvegliati, definiti tali da Hrabal stesso, sebbene possano apparire come raccolte di racconti, racconti lunghi, monologhi lunghissimi. Questi tre volumi, ritradotti da Corduas, rappresentano forse la più chiara espressione di opposizione al potere e alla violenza. Nei Treni (Hrabal stesso amava abbreviare i suoi titoli) si racconta di un episodio di resistenza al nazismo, di una bomba gettata da un adolescente contro un convoglio nemico, che è anche un biglietto d'ingresso nell'età adulta e insieme un congedo dalla vita. Nel Re compare lo scabroso tema del collaborazionismo e dei rapporti fra cechi e tedeschi, raccontato con sguardo né complice né indulgente, ma certamente coinvolto e indagatore. Infine, nella Solitudine, Hanta, l'uomo lontano dalle cose del mondo, che lavora alla pressa meccanica a macerare libri e carte varie e assimila cultura come i bambini apprendono la lingua materna, ha un rapporto struggente con una zingara, dolce amante e premurosa compagna che da un giorno all'altro scompare in un campo nazista. Hrabal è l'unico autore ceco ad aver citato l'orrore dello sterminio degli zingari, che spesso compaiono nelle sue pagine come personaggi vitali e sofferenti.
Accanto alle tre opere principali nel volume dei "Meridiani" vi sono varie raccolte di racconti, fra cui Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare, prima apparizione italiana di Hrabal, risalente al 1968 nell'impeccabile traduzione di Ela Ripellino. Assenti eccellenti sono Le nozze in casa, dettagliata autobiografia affidata alla voce narrante dell'amatissima moglie Pipsi, ma obiettivamente troppo lunga per un volume di opere scelte, e due dei tre libri del "ciclo di Nymburk", che raccoglie i suoi ricordi d'infanzia di un mondo lieve, premoderno, reso vivo dal leggendario zio Pepin, autentica musa ispiratrice di storie e modalità narrative. Poco male, tenuto conto dell'elevato numero di scritti inediti, di ricostruzioni delle molteplici versioni di molti testi, di interviste e brani poetici.
Certamente il metro dell'amore guida Corduas nella scelta e nell'organizzazione degli scritti, anche se in parallelo a un intento filologico chiaro e dichiarato. Accanto a una disposizione cronologica, si coglie il tentativo di mettere in luce i fondamenti contraddittori ma complementari della poetica di Hrabal. Sostenuto dall'impostazione di Jirí Pelán nel saggio introduttivo al volume, Corduas si lascia guidare dal contrasto armonico fra lirismo ed epica, ponendo in apertura e chiusura due composizioni poetiche che, pur con sguardo soggettivo, cantano mondi interi e personaggi complessi. Sono La bella Poldi (non si lasci trarre in inganno il lettore inesperto, non di una bella donna si tratta, ma di un'acciaieria nella città di Kladno) e Adagio lamentoso. In memoriam Franz Kafka, poema che chiude e completa la Solitudine.
La bella Poldi, scritta nel 1950 e trasposta in prosa circa dieci anni dopo, contiene in nuce i tratti di tutta la produzione di Hrabal, ispirata in gran parte alle tendenze poetiste e surrealiste verso la compenetrazione di vita e poesia, l'uso del collage, la scrittura automatica, ma soprattutto il flusso incontrollato del racconto. Accostamento casuale di situazioni, pensieri e personaggi e trascrizione dei "discorsi della gente" apparentemente sembrano cozzare tra loro. Da questi opposti procedimenti nasce, però, una realtà di personaggi imprevedibili, stravaganti, umanamente sofferenti e perciò diametralmente opposti alle icone unidimensionali del realismo socialista. Non a caso, Egon Bondy, poeta e filosofo amico di Hrabal, definì il suo stile "realismo totale".
Circa l'uso del collage di letture, discorsi e immagini (confrontage secondo la definizione data da Hrabal nel 1968), merita un'attenzione particolare Mortomat, testo sperimentale, tradotto in italiano per la prima volta. Scritto nel 1949, si presenta, anche graficamente, come montaggio casuale e insieme artefatto di una notizia di cronaca nera, della fattura di una ditta di giocattoli, delle spiegazioni di un libro dei sogni, di un listino prezzi delle terme, di un volantino dell'associazione Krematorium e di altro ancora. Ne scaturisce un effetto disarmonico e contraddittorio che nasce dal "saper irrompere nel cuore delle cose".
Moltissimi racconti, scritti brevi e brevissimi, dialoghi e memorie completano il volume. In Paure totali del 1991 Hrabal regala ai lettori uno degli ultimi scontri contro il potere. Un potere che non viene narrato nelle sue espressioni più cruente e quindi facilmente esecrabili, ma nel subdolo controllo dei desideri e delle piccole libertà individuali mai sufficientemente tutelate. Hrabal parla dello stillicidio di domande personali, politiche, ideologiche cui fu sottoposto dalla polizia per il rilascio del passaporto, nei primi anni settanta.
Un ultimo accenno va fatto al gran numero di traduzioni realizzate per il volume. Hrabal è sempre stato il tormento dei traduttori, sottoposti spesso alle dure critiche dei colleghi boemisti. Ben vengano dunque rivisitazioni dei testi. Con qualche perplessità, però. Nonostante l'ottima traduzione di Barbare Zane, perché cancellare la poetica ed evocativa versione di Ela Ripellino dell'Inserzione? E perché la bizzarra traduzione di pábitel con stramparlone, semanticamente corretto, ma foneticamente improbabile? Pábitel, neologismo ripreso da Hrabal, indica "colui che è capace di esagerare (...) è il contrappeso del personaggio civilizzato e intellettuale (...) è uno strumento del linguaggio (...) vede la realtà attraverso il diamante dell'ispirazione". Quindi colui che parla strambo o straparla. Va bene. Ma perché non lasciarlo intradotto? In fondo la lingua ceca ha già regalato alla parlata transnazionale il neologismo robot, creato nel 1920 dalla penna dei fratelli Karel e Josef Capek.
D'altra parte, di queste inezie Hrabal avrebbe soltanto riso. Hrabal era un uomo ironico e sempre libero. Per questo fu censurato dal potere, rinnegato da molti amici e, infine, relegato in un'indifferenza temperata dai molti riconoscimenti internazionali e dal calore dei lettori, ma amareggiata dall'insistenza degli opportunisti.
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