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Pubblicato nel luglio 1972 a Buenos Aires, El oro de los tigres di Jorge Luis Borges si componeva di trentasette testi, in prosa e in poesia, introdotti dal consueto prologo e con l'aggiunta di quattro note finali. Tutti scritti negli anni precedenti e quindi successivi all'uscita di L'elogio dell'ombra (1969), tranne Milonga di Manuel Flores. Dodici componimenti erano già apparsi sui più importanti quotidiani argentini. Uno dei trentasette testi, la citata Milonga di Manuel Flores, verrà poi espunta da Borges per aggiungerlo, in modo definitivo, alla raccolta Per le sei corde (1964).
Nel prologo un Borges ormai più che settantenne sembra prendere le distanze dalla sua opera. Dialoga con il lettore e gli dice che da lui non deve attendersi molto "fuorché il consapevole impiego di alcune abilità, di qualche leggera variazione e di parecchie ripetizioni". In realtà il topos della monotonia è una costante dell'opera di Borges, sin dagli esordi, visto che lo scrittore argentino intende la letteratura come un'infinita e sempre nuova ripetizione del già detto (e qui si veda il racconto I quattro cicli). Ma ripetere se stesso in Borges significa fedeltà al proprio complesso e vasto mondo letterario.
L'oro delle tigri si colloca al centro di un fervido periodo dedicato alla poesia (dieci raccolte in quindici anni), che si concluderà con I congiurati (1985) ed era stato inaugurato nel 1960 con L'artefice, dopo quasi trent'anni di pausa poetica in cui Borges aveva scritto soltanto nove poesie. Quali sono gli argomenti ricorrenti? I ricordi e il trascorrere del tempo, la filosofia e la letteratura, lo specchio e il labirinto, l'identità mutevole o inafferrabile. A questi temi ora si affiancano quelli della mitologia germanica e argentina (il gioco delle carte, la musica, i modesti eroi di periferia). Lo stile resta classico: basato sulla misura, la chiarezza e l'essenzialità. Assai lontano dagli sperimentalismi degli anni giovanili. Nel prologo alla raccolta L'altro, lo stesso (1969), la più importante e corposa della seconda fase, Borges aveva dichiarato: "È curiosa la sorte dello scrittore. Agli inizi è barocco, vanitosamente barocco, ma dopo molti anni può raggiungere, con il favore degli astri, non la semplicità, che non è niente, ma la modesta e segreta complessità".
Una poesia diretta, sì, eppure formalmente rigorosa, dai versi quieti, ma ben ritmati dall'endecasillabo. Nel volume predominano i testi poetici, che sono ventotto in tutto, tradizionali nella metrica. Più moderni dal punto di vista compositivo appaiono invece gli otto pezzi in prosa: concentrati e folgoranti, e anche in questa raccolta Borges si conferma grandissimo scrittore di racconti dalla stile rigoroso e preciso, eppure arcanamente evocativo, come in Il Palazzo e Hungeist vuole uomini, dove il mito dell'eroe si fonde con quello letterario, si necessitano a vicenda.
La differenza fra L'oro delle tigri e le altre raccolte poetiche sta nell'insolita disponibilità ad aprirsi, a raccontarsi. L'autore parla di sé, della solitudine e della morte, degli amori mancati e della cecità, appare ripiegato su se stesso, rassegnato a un presente di ombre, a un vuoto esistenziale che nemmeno il grande amore per la letteratura riesce più a colmare (ma di ciò nulla importa. Il rassegnato/esercizio del verso non ti salva). Una poesia, quindi, più intima e personale, forse perché lo sconforto spinge a confessarsi (si veda la poesia Al triste). Va aggiunto che gli anni in cui Borges scrive i testi qui raccolti sono quelli del ritorno dalla madre novantenne, dopo il fallito matrimonio con Elsa Astete Millán.
La poesia che nasce da una disposizione d'animo malinconica, e insieme più disponibile a raccontarsi, si affianca e s'intreccia alla poesia che si richiama ad altra poesia o ad altri poeti (A John Keats), che rivisita e cita testi letterari, che rievoca i miti antichi, i propri antenati, il gaucho, la lingua tedesca, l'Islanda. È questo che fa dellÆOro delle tigri un volume tanto insolito quanto intenso, dove convivono ironia e tragicità (e si alimentano a vicenda), poesia e prosa, storia del mondo e vicende personali. C'è il rimpianto per una vita non vissuta (Ciò che è perduto), per una vita d'azione, eroica, e insieme la consapevolezza che anche il mito della forza è destinato al decadimento, che tutto, infine, è precario e provvisorio. Echi di letture dei romantici tedeschi e inglesi e di Schopenhauer, con il suo pessimismo. Riflessioni non prive di contraddizioni che però l'autore mostra apertamente, come a ribadire il proprio scetticismo di fronte a ogni sistema interpretativo delle leggi universali. Non a caso il suo sguardo si sofferma sulla figura dello sconfitto, di chi ha perso tutto: l'amore, la gloria, la speranza. Restano frammenti di ricordi, il caos che l'arte prova a ricomporre o solo a rievocare: "Possiamo percepire alcuni volti, alcune parole, ma ciò che percepiamo è infimo. Infimo e meraviglioso assieme" (da Il Palazzo).
Esemplare la traduzione di Tommaso Scarano, che cura il volume e lo chiude con un breve saggio che prende il titolo da un verso di Borges: Un uomo solo in una sera vuota. Pur non distaccandosene di molto, la differenza con la prima, e tuttora valida, traduzione italiana uscita per Rizzoli nel 1974 di J. Rodolfo Wilcock e Livio Bacchi Wilcock (poi inclusa nel secondo volume del "Meridiano" della Mondadori del 1985) sta in una maggiore armonia e scioltezza dei versi, anche per l'accentuazione dei toni discorsivi e l'uso di un linguaggio meno letterario.
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