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Questa coproduzione - nella quale hanno partecipato Colombia, Danimarca, Messico, Germania, Svizzera e Francia - presenta una realtà storica (la Bonanza Marimbera e la guerra fra narcotrafficanti), ma non è la tipica produzione di Hollywood, scabrosa e al di sopra delle righe. Ha, invece, uno stile di poesia epica, con un rapsoda omerico che canta la storia di Rapayet, un giovane che ha sposato un'adolescente della comunità wayúu, nella penisola colombiana della Guajira e ha dovuto pagare un prezzo molto alto. Úrsula, la matriarca dei Pushaina, gli ha esigito 30 capre, 20 manzi, due muli e cinque collane. Per acquistarli, il protagonista decise di trafficare marjuana attraverso i nordamericani del "Corpo di Pace", che distruibuiva propaganda contro il comunismo. Divisa in cinque canti, la storia mostra (e dimostra) che i wayúus avevano resistito ai pirati, agl'inglesi, agli spagnoli e ai colombiani. Ma il denaro facile è riuscito a distruggerli: le nuove generazioni dimenticheranno i codici d'onore e tutti i valori, a cominciare dall'importanza del vincolo famigliare. Quando qualcosa non si ottiene volontariamente si piglia per la forza: tutto si compra e si vende. Ma, in un mondo violento, il rispetto senza armi è destinato a un solo destino: la morte. E gli esseri umani, come gli uccelli estivi, vengono e se ne vanno. Perciò il titolo originale del film è "Pájaros de verano". Eccellente!
Se Gabriel Garcia Marquez si fosse trovato a raccontare la storia di Escobar siamo certi che l’avrebbe fatto così. Attingendo a quel mondo tutto suo dove poesia, realtà e tradizione popolare si fanno succo di piccoli incanti narrativi, ondeggianti al vento del deserto de La Guajira. C’è tanto Gabo, infatti, in "Oro verde. C’era una volta in Colombia", l’ultima opera di Ciro Guerra, stavolta affiancato alla regia dalla sua produttrice, Cristina Gallego, con la quale ha già condiviso le glorie internazionali de "El abrazo de la serpiente", altra folgorante incursione in quell’immenso giacimento culturale che sono le civiltà indie dell’Amazzonia. A riprova di quanto il cinema latino americano sia al momento più creativo ed originale dell’Occidente, la coppia di artisti colombiani firma un film del tutto fuori dalle convenzioni, capace di trasformare una storia di narcos, anzi "La storia dell’origine del narcotraffico", divenuta addirittura un genere, in un racconto epico e poetico, tenuto in piedi dalla saga di una famiglia indigena. Un clan orgoglioso delle sue tradizioni di pastori nomadi, una società matriarcale dove le donne gestiscono gli affari della comunità, dove i vivi e i morti sono in costante dialogo attraverso i sogni e, la natura, è coprotagonista dell’agire umano. Finché il boom del commercio della marajuana con gli yankees, però, non travolgerà ogni cosa.
Recensioni
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Tra film antropologico e gangster movie, la trasformazione epocale e violenta di un popolo
Trama
Alla fine degli anni Sessanta, in Colombia, nella regione settentrionale abitata dagli indiani Wayuu, che ancora vivono di pastorizia e coltivazione della terra, l'ambizioso Rapayet sposa la giovane Zaida. In poco tempo, il ragazzo convince delle proprie capacità imprenditoriali i capiclan e avvia un fiorente commercio di marijuana verso gli Stati Uniti alleandosi per interesse con una famiglia rivale. La ricchezza derivante dal narcotraffico modifica radicalmente lo stile di vita della comunità di Rapayer e conduce nel corso degli anni Settanta a uno scontro fratricida con gli alleati, che verrà combattuto cercando di rispettare usi e tradizioni di un mondo in via di sparizione.
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